SCRlffURA E GIORNALISMO Incontro con Ryszard Kapuscinski a cura di Oreste Pivetta Dio! Malgrado tutte le preghiere che Ti rivolgiamo le nostre guerre le perdiamo sempre. Domani affronteremo una nuova battaglia grande davvero. Abbiamo più che mai bisogno del Tuo aiuto per cui lasciami dire una cosa: quella·di domani sarà una battaglia dura non roba da bambini. Perciò Ti prego non mandarci in aiuto Tuo figlio vieni Tu. La preghiera di Kogo, capo della tribù dei Grikuasa, non è stata esaudita. Si era nel 1876 e la battaglia contro gli afrikaner rappresentò una tappa tra le tante qi una sconfitta e di una colonizzazione che per altre strade (non che manchino le guerre adesso) continuano ad offrire frutti al nostro Occidente ricco e rapace. La preghiera di Kogo sta ad epigrafe di un libro da poco apparso anche in Italia, un libro di cui si è scritto (vedi anche l'ultimo numero di Linea d'ombra), ma non forse quanto sarebbe stato giusto, perché La Prima guerra del football e altre guerre di poveri, pubblicato da Serra e Riva, di Ryszard Kapuscinski è un libro utile, essendo probabilmente anche scomodo. Kapuscinski è un giornalista, ha una sessantina d'anni (è nato nel 1932 in Polonia, in un paese di nome Pinsk) e ha lavorato per vent'anni, dal Sessanta all'Ottanta, per conto dell'agenzia di stampa polacca. Qualifica: corrispondente estero. Destinazione: tutti i paesi del cosiddet- . to Terzo Mondo, nei giorni di crisi, quando cioè si combatteva nelle strade o quando cadeva un presidente per un colpo di Stato o quando la gente moriva per fame. Kapuscinski, come spiegherà nell'intervista, racconta di una vita spesa correndo da un punto ali' altro di questo Terzo Mondo, tra Sudamerica, Africa, Asia, lui solo perché la sua agenzia era povera e non poteva servirsi di altri giornalisti, con l'obbligo di arrivare prima degli altri perché l'agenzia deve battere al più presto la notizia buona per tutti i giornali. Fatica disperata per Kapuscinski. Ma lui riconosce che è stata una gran fottuna, perché ovunque così è stato un testimone, ha potuto vedere con i propri occhi e solo dopo aver visto ha potuto raccontare, affidandosi in primo luogo ai brevissimi e secchi dispacci per la sua agenzia. Buon·a parte del resto, notizie, personaggi, paesaggi, storie, impressioni rimasti su un taccuino o in un margine della memoria, è entrato poco alla volta in una dozzina di libri, tra i quali Shah of Shahs sulla rivoluzione iraniana e The Emperor, segnalato nel 1983 daNewsweek tra i dieci migliori libri dell'anno, tradotto in Italia da Feltrinelli con il titolo Il negus. Vita e miserie di un autocrate. Ma da una condizione all'altra, dal dettare brusche notizie d'agenzia allo scrivere un libro, Kapuscinski mi pare abbia continuato a lavorare per offrire soprattutto il valore di una testimonianza. Anche nella scrittura distesa, Kapuscinki si ritrova infatti testimone e racconta, sommando con gusto impressionistico oggetti, persone, movimenti: la figura di un leader nero, l'afa soffocante, lo scorpione che avvelena il sangue, le pallottole dei ribelli, le parole di uno sconosciuto. E così manifesta, senza annunciarlo, tra le righe non scritte del libro, un giudizio, un commento, la sua adesione. Oltre la fortuna di aver vissuto vent'anni di storia del Terzo Mondo, dall'avvio dell'emancipazione alla caduta di tanti sogni e alla neocolonizzazione d'oggi, Kapuscinski mi pare riveli alcune virtù. Ad esempio al contrario di molti suoi colleghi (anche recenti) nori si traveste mai da generale e neppure da guerrigliero, da colonnello o da presidente. Non ama sentir fischiare le pallottole. Non gonfia il petto da protagonista in 52 tuta mimetica. Sa che non saranno i giorn)llisti a fare la storia. Verità banale, ma non crediate sia facile resistere alle tentazioni. Kapuscinski non è il campione della obiettività (altro mito ed altra bugia giornalistica) e sa benissimo da che parte stare e lo dimostra. Con l'accortezza di non farsi prendere dall'ideologia (e neppure dalla demagogia, perché sa trattare con ironia delle responsabilità di tutti, anche degli africani). C'è un dialoghetto illuminante. A Varsa via, Kapusc,inski resoconta gli avvenimenti del Congo ad un alto dirigente politico. Il dirigente contesta: no, non è giusta l'interpretazione dei fatti. "Vacci tu a vedere" ribatte Kapuscinski. "E va bene - concluse il compagno - ma lei non può andare all'estero come giornalista, lei non capisce i processi marxistileninisti che si verificano nel mondo". "D'accordo - annuisce Kapuscinski - anche qui c'è da scrivere". la prima guerra delfootball non è insomma un libro ideologico, pur essendo un libro di parte: dalla parte degli oppressi di un mondo che ha pagato con una nuova oppressione il suo tentativo di riscatto. Di questo riscatto e di ogni nuova oppressione narra Kapuscinski, partendo dal Congo di Lumumba (e regalandoci uno st;aordinario ritratto del leader nero e dei bar congolesi, luoghi fondamentali di esercizio della democrazia e della politica), per arrivare al deserto assetato e affamato dell'Ogaden. La guerra che dà il titolo al libro è quella scoppiata tra Honduras e Salvador, all'indomani delle partite di qualificazione per i mondiali di calcio del 1970 (in Messico). Il libro è utile perché racconta una storia dimenticata e sicuramente mai studiata (chi.è Lumumba? chiedetelo ad un liceale o ad un universitario d'oggi), perché la storia (anche dopo gli sconvolgimenti dell'89) è • storia dell'Europa e tuttalpiù dell'Occidente ricco, e la racconta con pochissime date ma tra immagini che lasciano intuire molto di più di una cronologia di battaglie. È scomodo perché ci ributta in faccia come il mondo sia diviso tra Nord e Sud molto più radicalmente e tragicamente di quanto non lo fosse tra Est ed Ovest. È scomodo anche perché dice qualche cosa di critico a proposito di due "mestieri" d'elite, amati, invidiati, coltivati, quello di giornalista e quello di scrittore, contro il frequente edonismo autocommiseratorio, invitando tutti ad aprire almeno un occhio al di fuori dal proprio sè. Foto di PerryMoore (Archivio Serro & Rivo).
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