SAGGI/SCIASCIA sei occhi" si legge su una grande figura del santo: scritta un po' sibillina, da riscontrare forse su un passo dell'Apocalisse alquanto confuso nella memoria di chi lo tracciò. E poi: "Locus purgationis est", "Fruétus peccati est"; e vogliono dire, con una rassegnazione da buio a mezzogiorno, che chi scrisse aveva coscienza della propria colpa e riteneva di dover scontare, in quel luogo, la sua penitenza. E uno, forse in attesa della sentenza, scrisse: "Aspetta del suo falir la pena". Di una stessa mano, probabilmente,' sono due sonetti dedicati alla Croce: uno completamente leggibile e l'altro fino al sesto verso. Il primo comincia: "Tetre immagini ogn'astro a noi diffonde"; e i sei versi dell'altro dicono: "L'alme, che quasi erranti agne disperse,/ Rischio correan di precipizio etemo./ Sotto quest'arbor santa al suo governo/ In un raccolte il buon Pastor converse/ Su quest'altar gran Sacerdote offerse/ Ostia a placar l'alto rigorpaterno". -E sono versi di buona fattura, anche se non di intenso sentimento: e si dovrebbe cercare il loro autore tra i poeti di un certo nome, nella Sicilia del settecento. E una uguale ricerca, tra i pittori dell'epoca, dovrebbe essere svolta per quanto riguarda due Crocifissioni, un tondo raffigurante la Madonna con santi in adorazione e un piccolo paesaggio: che ancora, vividamente, risaltano sulle pareti. E si può con certezza affermare li:heuna delle due Crocifissioni è di un pittore di eccezionali qualità e di notevoli capacità tecniche; così come il tondo e il piccolo paesaggio si possono attribuire ad uno stesso artista, di personalità meno complessa e sensibile di quella dell'autore della Crocifissione, ma di buon mestiere e di una cultura figurativa in cui si notano gli apporti della scuola napoletana: di Luca Giordano, del Solimena. (31.10.1964) La questione della lingua Una conferenza tenuta da Pasolini in varie città d'Italia, ha scatenato sulla questione della lingua penne più o meno illustri, più o meno competenti, più o meno cariche di malumori e veleni. Ognuno ha voluto dire la sua, e spesso facendo dire a Pasolini quello che non ha detto. I più, infatti, lo hanno accusato di aver voltato gabbana, di essersi convertito alla lingua tecnologica, di comunicazione, del nord: e di avere, per conseguenza, ripudiato la lingua di espressione del sud, là dove, invece, Pasolini si era limitato a costatare lo spostamento linguistico dall'asse RomaFirenze ali' asse Torino-Milano, cioè l'insorgere di una lingua che io chiamerei "manageriale", nella quale viene sì a risolversi il lungo processo di eliminazione dei particolarismi linguistici, e dunque l'avvento di una lingua finalmenté unitaria, ma con conseguenze che sarebbero poi una specie di perdita dell'anima. Costatazione, questa, che Pasolini fa non senza dolore ed orrore: così come un medico, per quanto addolorato, non può fare a meno di registrare il decesso di un paziente; che sarebbe, in questo caso, l'asse linguistico Roma-Firenze. Personalmente non ho mai avuto problemi linguistici se non nel senso della ricerca della chiarezza. E sono convinto che scrittori come Pirandello, come Saba, come Moravia, abbiano portato abbastanza avanti il processo di unificazi0ne tra lingua letteraria e lingua parlata. Anzi: sono convinto che Moravia l'abbia addirittura risolto. Se poi questa soluzione non è valida per tutti i livelli della società italiana, ciò si deve al fatto che la società 44 jtaliana ha, a tutt'oggi, dei livelli irrangiungibili. Considero dunque come artificioso emistificatorio, come alibi di individuali impotenze (che raggruppandosi formano però una forza, una potenza teorizzatrice), quella specie di grido di dolore per la lingua che non c'è che da qualche parte si leva. "Se ci fosse davvero una lingua italiana moderna, lubrificata, quali grandi cose scriveremmo!", molti hanno I'aria di dire. Mentre, al contrario, sono le grandi cose da dire che fanno la lingua. Ma Pasolini non è da confondere col coro che lamenta la lingua che non c'è. Egli ha, di solito, esatta percezione del farsi delle cose: e nel suo discorso ha colto un fenomeno che viene ineluttabilmente svolgendosi nella società italiana, cioè l' avvento di un linguaggio fabbricato negli ambienti "manageriali", un linguaggio di comunicazione. Solo che questo linguaggio è soltanto un gergo furbesco, come giustamente è stato osservato: e nòn è poi vero che sia totalmente depurato da ombre e sfumature 'espressive. È il gergo, insomma, dei caroselli televisivi, dei presentatori tipo Bongiomo, degli uomini politici: e contiene aspirazione alla persuasione, alla stupidità, alla felicità. Non una lingua, dunque, ma un gergo: e il costatarne l'esistenza è come porre un corollario a quella teoria della "managerial revolution" che sarebbe il caso di tornare a verificare. Insomma: la rivoluzione dei dirigenti tecnici porta la conseguenza di una rivoluzione linguistica che in Italia, in ultima analisi, rischia di provocare una specie di petrarchismo tecnologico. La lingua di Moro Non ho ancora letto il testo della conferenza di Pasolini: ho letto una sua risposta alle critiche che gli erano state mosse, e molte di queste critiche. Per sentito dire, dunque, so che Pasolini ha indicato come carta della nuova lingua il discorso che l'onorevole Moro pronunciò alla inaugurazione dell'autostrada del Sole. L'onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza noto, ma vale la pena sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull'asse Milano-Torino. E dell'uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell'oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi ,elettori nei Vicerè di Federico De Roberto: discorso di magistrale non dire relativamente ai problemi di cui essi elettori erano individualmente e collettivamente gravati, e spaziante con vaga disinvoltura nei cieli della politica estera e coloniale, della potenza patria, del prestigio internazionale. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l'onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in,quella delle cose concrete. E chi l'ha sentito e visto in televisione non può non condividere l'impressione dell'ineffabile non senso che l'onorevole Moro comunica. "Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto!". · Se dunque il "sao ko kelle terre" della nuova lingua è il discorso dell'onorevole Moro, è il caso di dire che stiamo freschi davvero. (30.l.1965)
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