SAGGI/SCIASCIA ' Unamuno e il generale Rettore dell'Università di Salamanca, Unamuno si trovò nel 1936,allo scoppio della guerra civile, nel territorio occupato dai franchisti. A suo modo cattolico, a suo modo nazionalista, egli credette in un primo tempo di poter aderire alla Spagna di Franco. Ma si ricredette subito. Precisamente il 12 ottobre del '36 durante una cerimonia tenuta nell'aula magna dell'Università, presente donna Carmen Franco, ad un certo punto il generale franchista Millan Astray, invalido di guerra, gridò il motto della Falange: "Viva la morte!". Fu la goccia che fece traboccare l'indignazione di Unamuno. Si alzò a parlare: "Sento un grido necrofilo e insensato: Viva la morte! Ed io che ho passato la mia vita a creare paradossi che suscitavano la collera di coloro che non li capivano; io devo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale Millan Astray è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi irivalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora pensare che debba essere _ilgenerale Millan Astray a dirigere la psicologia di mf1Ssa.Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di Cervantes cerca solo un macabro sollievo nel provocare mutilazioni attorno a sé". Irato il generale Astray gridò: "Abbasso l'intelligenza! Viva la morte!" E Unamuno: "Questo è il tempio dell'intelligenza. E io ne sono il sommo sacerdote. Voi state profanando il sacro recinto. E vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convin~ \ cerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E pefpersuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e diritto nella lotta. lo considero inutile e~ortarvi a pensare alla Spagna. Ho finito." E queste sono state le ultime parole della sua vita pubblica. I palinsesti del carcere _ Nel 1906il consigliere comunale avvocato Giuseppe Cappellani avvertiva Giuseppe Pitrè che nel palazzo dello Steri, dove si stavano eseguendo lavori di adattamento si trovavano, in locali che al tempo dell 'Inquisiziohe erano certamente prigioni, graffi ti, disegni e scritte. Pitrè non perse tempo: riuscì a fermare i lavori e, per circa sei mesi, cautamente e pazientemente lavorò a decifrare quelle scritte, a riprodurre quei disegni. Dopo di che gli operai attaccarono anche quei locali, devastandoli. Curiosamente, nessuno disse a Pitrè che, nello stesso palazzo, c'erano integre altre tre celle. Più strano ancora: Pitrè aveva sottomano il libro di Vito La Mantia, L'Inquisizione in Sicilia, pubblicato a Palermo due anni prima, in cui chiaramente, esplicitamente si parla di queste altre tre celle. Lo aveva indubbiamente sottomano, tanto vero che ripetutamente lo cita: llla evidentemente trascurò di leggere la lunga nota dedicata alle tre celle la cui ubicazione poteva identificarsi nelle cosidette carceri filippine, cavate da un ammezzato tra pianterreno e primo piano e prospi- ' cienti alla piazza Marina. Questa estate l'amico Giuseppe Quatriglio ha riscoperto le tre celle; e ne ha dato notizia sulla rivista "Sicilia", accompagnando il suo articolo con ottime riproduzioni fotografiche. Successiva42 mente, ne ha scritto sul "Giornale di-Sicilia": giustamente chiedendo che un così prezioso e vivo documento della storia siciliana (e unica testimonianza diretta, credo, di quella tragedia che è stata l'Inquisizione per i popoli ad essa soggetti) venga con ogni cura conservata. Richiesta cui calorosamente mi associo: e con me questo giornale, e tutti coloro che hanno a cuore le cose della nostra terra. · Appena letto l'articolo di Quatriglio, per il mio ancora attivo interesse alla storia dell'Inquisizione in Sicilia, sono corso a vedere le tre celle. Con emozione e commozione mi sono trovato di fronte a quelli che il Pitrè chiamò "palinsesti del carcere" (che vuol dire, palinsesto, codice pergamenaceo raschiato e riscritto, e così è di queste pareti). E tenterò di dame un preciso ragguaglio in una delle mie prossime note. La Crocifissione e il piccolo paesaggio sono le cose che più colpiscono, che restano impresse. Il paesaggio è di un castello su cui sventola un vessillo rosso, di un albero solitario: con uno sfondo di colline e sotto un cielo tempestoso. Ed è stato concepito come una specie di "trompe-l'oeil", di "inganno": e nell'avara luce doveva veramente apparire come uno di quei dipinti su seta tenuti da bastoncini metallici e attaccati al muro con un cordoncino (e vi si finge persino la sfilacciatura del cordoncino). La èrocifissione ha come un ricordo di quelle antonelliane che si trovano a Dresda e a Sibiu: il Cristo crocifisso su uno sfondo in cui case e chiese si accampano su una insenatura o golfo dominata da un monte che è il Calvario; in alto il cielo stellato e una luna che n"ella sua falce accoglie un profilo umano quasi caricaturato; espressivo di ipocrisia e di gelida ferocia. Considerando che la credenza popolare ravvisa nelle macchie lunari il volto di Caino, si può anche pensare che il pittore abbia voluto riprodurre le sembianze di uno degli inquisitori, degli aguzzini; e comunque di una persona che gravò sul suo destino. Perché non tutti i prigionieri dovevano essere rassegnati o contriti: qualcuno doveva odiare e disperarsi, perdere tra quelle mura la fede, apprendervi il dispetto e la violenza. Chi scrisse "Poco patire/ eterno godere/ poco godere/. eterno patire" aveva già rovesciato la visione cristiana di questa vita e dell'altra. E chi tracciò le parole "Semper tacui" aveva raggiunto una consapevolezza della propria dignità al di là della fede in Dio. E la·scritta "Allegramenti o carcerati, eh' quannu chiovi a buona banda siti" è già di un'ironia che supera la sventura. Ma chi furono questi uomini che passarono giorni e anni della loro esistenza nelle tetre carceri dell'Inquisizione? Quali i loro. nomi? Considerando quale vergogna allora costituisse l'avere a che ·fare con l'Inquisizione in qm,mtorei o sospetti rei (e non soltanto per sé, ma anche per i propri familiari, e per più generazioni), è già molto che tre prigionièri abbiano lasciato i loro nomi: Giuliano Sirchia, Pietro Lanzarotto, Francesco Gallo. E si può anzi dire che questi tre, infischiandosene della vergogna, c9n la semplice traccia del loro nome hanno lasciato la più ardita testimonianza di reazione, di rivolta. Ma gli anni della loro sofferenza erano anche gli ultimi dell'Inquisizione in Sicilia: ché si ha ragione di credere che queste scritte e qÙeste pitture non siano anteriori al 1770. Dodici anni dopo il marchese Caracciolo, vicerè di Sicilia, scriverà al suo amico D' Alembert: "Il giorno 27 del mese di· /
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