come espressione del lato nascosto, inconscio, perverso dì una condizione, dì una sottocultura. Cuore selvaggio è un'esperienza estrema del Cinema e del Male, e in questo è la sua forza. Il Male come universo totale americano più ancora che metafisico, che ha ucciso in un grande rogo, in una inunane geenna dì bruciati vivi e di bruciati dal cancro, i Padri Buoni e costringe a una disperata fuga dalla Madre rapace, una sorta di Mae. West decrepita, e letale. È costante in tutti i film di Lynch questo gusto per l'immaginario perverso, l'anormale, il mostruoso, che è parte di noi ché tutti, dice Sailor come in un fumetto, sì portano dentro un segreto; l'esperienza dell'orrore è necessaria ai suoi protagonisti, tutti adolescenti in età di passaggio. Del resto, il film prende le mosse dalle partì dì Cape Fear. E, sia detto non troppo per inciso, è un orrore che non ha solo le forme "drogate" del sensazionalismo, la fisicità triviale del sangue e del vomito, delle amputazioni e delle funzioni corporali, ma è capace di momenti "strani", senza risposta, quasi divaganti, come il racconto sul cugino Dal e, single minorato ùnprovvìsamente scomparso, e dì vere e proprie "aperture" sull'angoscia contemporanea, squarci di sgomento e..terrore emistero come la lunghissùna sequenza dell'incidente notturno, in una radura solcata dai fasci di luce dei fari delle auto, spazio di disperazione esistenziale, dì rifiuto della morte, di inconoscibilità degli altri, di kafkiana normalità. E Cuore selvaggio è cinema come superbo manierismo, come dìlata?,Ìone warholiana, non innocente, di particolari, come esibizione asru_ta,artefatta dì pose e combinazioni hard, come montaggio schizoide, come recitazione parossistica (e stregonesca, da pitone alle prese con la preda, è la scena della seduzione di Lula da parte di Bobby Perù nella stanza di motel), come accumulo dì miti, immagini, suoni di massa. Di essi ne assembla a volontà di decila scena finaledi Cuoreselvaggio di lynch. 46 11 ·i~ ■ i il· i~ i 11 fratorc: Nìcholas Ray e i suoi giovani ribelli in . fuga e Elvis Presley (ma con la distinzione che "Love me tender" sarà riservata in esclusiva alla sposa, cioè al finale), film pomo sottoSatyricon girati clandestinamente in villaggi sudisti e horror gore, vecchie canzoni in disuso e rock-ènergia, degenerati sudisti di tanta letteratura e reminiscenze dì letterature infan- ·tili, come in un "incontro tra Tom Sawyer e Huckleberry Finn", road-movìe fermo e iperrealismo, marìnes usciti dal Vietnam e Wasp entrati nella malavita, covi-bordello da allucinazione morbosa di provinciale, noir e musical, Disney e humour nero, Dallas e il mito westemdell 'individuo legge a se stesso, con la sua (unica) giacca di serpente, ecc. Nel lucido accumulo di materiali e impressioni contrastanti c'è la logica di un "universo selvaggio e assurdo"; nella superficie, nella "assenza", c'è tutto il senso. La favola entro cui il film è inscritto, ìfMago di Oze il sogno di un altrove, aldilà dell'arcobaleno, dove si può vivere, ne è un ulteriore segno, più ancora che l'esorcismo necessario di un vero maestro dell'industria culturale. Che normalizzi, usi, sfrutti e no I '"anormalità" dei suoi oggetti "popolari", non gli interessa più di tanto. La grande anomalia di Lynch è la sua "ipertrofia d'autore", la sua scelta, che ha in_comune con alcune delle correnti più interessanti del!' Arte contemporanea, di poter fare un'opera d'arte come "merce assoluta", la sua fiducia nella potenza della "sùnulazione" a mutare il suo sguardo. Scenari adeguati, nei primi anni Ottanta, ne aveva perlustrati diversi anche Mìchael Cimino con la sua megalomanìaca e produttivamente ambigua personalità. Non è certamente il caso di Ore disperate, remake di urt vecchio (e non eccelso) film dì Wìlliam Wyler. Certamente, è un film di comando, e per De Laurentiis, fatto per uscire da una difficile situazione professionale, ma senza segni d'autore. Il film concede tutto à due deleterie mode attuali: quella di rendere moderno, attuale un vecchio "classico" (famiglie sull'orlo del divorzio, i figli vittime dei dissapori, la casa-nido in vendita, le scelte complicate di un mestiere che sia non solo di successo, ma che abbia un senso, di rapporti personali diversi), e quella di considerare il "noir" come un guscio vuoto, astratto, usabile in sé. Quel che va perso, il perfetto maniacale controllo dell'interno che era di Wyler, l'angoscia e la psicologia, è appena in parte compensato da un gusto dell'azione pura, libera, in tribunale o tra i freddi scenari montuosi dell'Utah, luoghi dì movimento cinematografico, dì corse sfrenate in spider o dì morti prefigurate. Ma soprattutto è risibile la costruzione mitica dì un attore monocorde come Mickey Rourke, eroe maledetto in versione Armanì, incarnazione di un'irregolarità, di un individualismo non-integrato, di un 'insofferenza alle regole, di rifiuto della "menzogna" del Sistema, che può al più andare bene in una trasmissione dì Raffaella Carrà. Secondo scenario: l'Urss eome Regno del Male storico. È uno scenario maturato tra l'intellighenzia interna dell'Urss nel corso di questi settant'anni di regùne. Oggi è ai primordi, alla definizione di campo, ma destinato a ìneyìtabili sviluppi, séguìti, approfondimenti. Ne è un primo esempio Così non si vive, un lungo documentarìo 0pamphlet, visto a "Cinema Giovani" di Torino, dì un cineasta, Stanìslas Govorukhìn, passato non a caso, in questo momento, dal film d'autore alla testimonianza passionale, virulenza e qua e là, si ha il sospetto, truccata. Del resto, come sanno i teorici ogni documento è sempre in qualche misura finzione, quando non menzogna; la storia del cinema è lì a provarlo, dal possibile uso dei filmati nazisti o dei cinegiornali Luce in sensi opposti, come propaganda fascista prima, come denuncia antifascista poi, alle stesse esperienze roosevoltiane negli anni Trenta americani. Dipende dallo "sguardo" dello spettatore. Per cui non sorprende che il film sia già un caso in Urss (file dì spettatori, a Mosca come a Leningrado, biglietti al mercato nero: uri altro paradosso dì un film che denuncia il mercato nero), e invece appaia, agli occhi, forse più oggettivi, di uno spettatore occidentale, piuttosto sommario. Il film, a nostro parère, può però essere utilmente visto perché osa rappresentare l'irrappresentabile, la faccia nascosta, quotidiana del sistema, certo parziale con tutti i luoghi comuni dei discorsi dell"'uomo della strada", con l'assolutizzazione di dettagli, ma anche reale, e perché rappresenta, comunque, una posizione reale, significativa nelle sue stesse ingenuità, dì destra religiosa e acriticamente filo-occidentale, quale solo un ex-comunista sovietico, figlio dì una vittima della repressione staliniana (un "padre ucciso due volte: nelle purghe del '36 e cancellandone il ricordo"), può sostenere. Prodotto dalla Mosfilm, non dalla Cìa, con una partecipazione tedesca, riassume le sue tes1negli ultimi capitoli in cui è accuratamente diviso, quello fulmineo in cui un attore dice la battuta del titolo "No way to live" e quello sulle "lezioni del muro dì Berlino", alla vigilia dell'abbattimento: "qui finisce il mondo della ragione e qui comincia il mondo del socialismo". Il paesaggio quotidiano è nerìssùno. Il
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