Linea d'ombra - anno VIII - n. 55 - dicembre 1990

ieri, sono fatti, storie di un immediatissimo passato, come quelli di Popov. E ancora di altri presenti. Impressiona di essi la strana vitalità che li pervade nonostante tutto, pur dentro il grigio-nero di esperienze obbligatorie. Da dittature d'altri climi e da altre rivolte e da altro confuso navigar della Storia - ci giunge il romanzo di Juan BenetLance spezzate, nella bella nuova collana di Guida che ci ha già dato un Jean-Paul e la ristampa del Gracq più ampio e sospeso,La riva delle Sirti. Siamo in Spagna al tempo della guerra civile e nella regione che Benet ha inventato come una propria Yoknapatawpha faulkneriana, da grande cultore e seguace di Faulkner quale egli si è sempre dichiarato, e che ha voluto chiamare genericamente ed emblematicamente Regiòn. Non è facile descrivere Benet, e la ricchezza da arazzo - pur sempre come àutunnale, luogo comune insolito, montagnoso e arduo, in un contrasto tra il barocco delle storie e degli scontri e l'austerità assai poco cattolica del fondo - dei suoi racconti e romanzi. Finalmente lo si traduce e ne siamo fe!id (rivendicando sobriamente il fato di averlo pubblicato per primi sulla nostra rivista). Lance spezzate è un'ottima introduzione ali' opera benetiana, perché intensamente romanzesco mentre è anche intensamente letterario, quasi teorico nella forte e ramificata costruzione. Invece che al mediocre pagliaccio Cela, il Nobel avrebbero dovuto darlo a Benet, tra gli spagnoli. Da Israele, uno stato che sembra sempre di più affascinato da autoritarismi e peggio, viene inveceL' amante di AbrahamB. Yeoshua, altro scrittore da noi amato e che abbiamo contribuito à introdurre presso i lettori italiani in passato assieme alla piccola e benemerita editrice Giuntina. La Haifa di Yeoshua è come il paese d_Ri egiòn di Benet, unmondo in sé, frondoso di personaggi e di storie; e sul fondo di un'epoca tormentata (ma quale non lo è stata, per Israele?) come il '73, anno di guerra. Giovani e vecchi, ebrei e arabi, uomini e donne, proprietari e proletari intrecciano le loro vicende in una storia corale, che nonostante il turgore del contesto rimane-come è volontà di Yeoshua, scrittore attento ali' intimo disagio e agli intimi moti dei protagonisti - sotto il segno del "privato".: dell'uomo alle prese con il sentimento, con l'altro. Mi accorgo, al termine di questa breve carrellata di titoli, che in fin dei conti tutti questi libri sono corali, sia che al coro giungano attraverso la sequela di racconti con personaggi diversi e numerosi senza rapporto tra loro sia che partano da edificazioni unitarie e però con molti, tanti personaggi che si incontrano, scontrano, trovano e perdono, come nella vita dei vivi. Segno di un gusto, di una propensione che trova invero poca pastura nella letteratura italiana contemporanea, piuttosto muffosa ed egotistica. (Dovrei ricordare un altro romanzo molto corale e molto divertente, ma se ne è già parlato: IlBuddadelle periferie di Kureishi, Mondadori. E naturalmente l' Acheng di Il re degli alberi, in attesa di quello del Re dei bambini, sempre presso Theoria. A proposito di Acheng, mi viene in mente di segnalare agli editori il· i~ ■ i i i· i~ 111 italiani un altro grande, anzi molto grande della letteratura contemporanea, in Italia perfettamente sconosciuto ma di cui èpossibile leggere in francese tre bellissimi romanzi brevi, il coreano del Sud Yi Munyong. Un nome da non dimenticare, su cui torneremo presto.) Altra strada Non ha molto a che fare con questi libri il romanzo di Julian Bames Una storia del mondo in lO capitoli e 112, l'autore di Il pappagallo di Flaubert, edito da Rizzoli. Nel suo ultimo libro, lungo ma veloce e divertente, stimolante e provocatorio, di testa e di spirito, c'è un cumulo di storie sul traliccio di una storia più storia di tutte, addirittura quella dell'Arca di Noè. Anche questo è, alla fine, un romanzo corale, anche se giustappone sequenze disparate, se ha una matrice di riflessione e gioco letterari enon di riflessione sull'uomo dentro la Storia. Piuttosto, calvinianamente (ma sappiamo bene come poi lo stesso Calvino non ignorasse la Storia), sull'uomo dentro le storie. Questo poli o pluri-romanzo che può anche ricordare, a spettatori di un a certa età, il delizioso kitsch di La famiglia Antropus arias La pelle sui nostri denti di Thornton Wilder (1942)e che può anche ricordare, perché no?, le costruzioni corali opposte, asiatico-meridionali e di incrocio favola-realtà di un conoscente di Bames, Salman Rushdie, si regge su un seguito di invenzioni mirabolanti e spericolate, apparentemente senza rete. Ma la rete c'è, ed è la· sapidissima intelligenza di un autore che sembra d'altri tempi; ma è adattissimo al nostro, e che guarda alle cose e alle narrazioni con la lente deformante della fumisteria ma con l'attenzione precisa di un moralista di taglia Altro Sud, il nostro e di ieri Segnalo con amore l'ultima quaterna dei Tascabili Einaudi dedicata al passato del nostro Sud, comprendente con la ristampa del Cristo di Levi, I Viceré di De Roberto e l'altro rivale del Gattopardo lampedusiano, Signora Ava di Jovine: due romanzi storici che, formidabile il primo, commosso e favoloso il secondo, hanno narrato l'unità d'Italia dal punto di vista del Sud, senzacompiacimentinobiliar-consolatori il primo, e il secondo con l'ottica addirittura dei cafoni. Il quarto titolo sono i racconti di Gesù, fate luce di Domenico Rea, scrittore poi impantanatosi ma allora - nel <lopoguerra - di barocca e strabordante vitalità figurativa, di acceso colore, di proliferante varietà che qualche sciocco collegò al populismo neorealista. Più indietro, nella riproposta adelphiana di Croce, ricordo la ristampa di un capolavoro delle nostre lettere da tempo introvabile: le Storie e leggende napoletane studiate e raccontate dal filosofo con il piglio del grande narratore. E a rileggere Croce sempre di più si resta annoiati dal filosofo, sempre di più si resta ammirati dallo scrittore. Fintiselvaggi e nuovi barbari. Sualcunifilm recenti Gianni Volpi Una delle esperienze più frustranti per uno spettatore che assiste a una delle ricorrenti rettrospettive sul cinema degli anni Sessanta (esempio più recente, quella notevole dedicata dal festival Giovani di Torino al "Nuovo cinema giapponese"), è misurare l'abisso che separa quel cinema dagli anemici prodotti attuali, la sua necessità, la sua forza di visione, di immaginario e di realtà, di racconto o di°intervento, di riflessione più o meno "soggetti,;a" sul mondo e di rappresentazione, finzione, spettacolo. Un'esperienza irripetibile, legata a un momento di trapasso e cambiamento di un'intera società e a una persa vitalità e incidenza del cinema? È senza dubbio così, ma con eccezioni che, al pari dei film di Kubrick odi Terence Davies o, più in minore, di Woody Allen e Spike Lee, di Germano di Kanevsky, disegnano possibili scenari· ali' altezza della realtà·e della realtà del cinema di oggi. Primo scenario: l 'Americà come regno dell'Immaginario. A interpretarlo al meglio è, ancor più dei Coppola e degli Scbrsese, David Lynch con il suo Cuore selvaggio. Per Lynch, il cinema (il cinema per eccellenza, l'unico vero, quello americano) è visionarietà, sogno, incubo protetto, mito e immaginario di massa, kitsch, materiali più o meno degradati ma vitali, con una valenza profonda, di desideri e ossessioni latenti. In fondo, nulla di nuovo. Ma Lynch va più in là, questa è la sola realtà americana, in una realtà americana, in una realtà irreale. Lavorare su questa/ avola o sulle infinite rifrazioni per chi sappia vederle e usarle, anzi reinventarle, dilatarle, dissezionarle - e in Lynch sono rifrazioni perlopiù oscure, sinistre, maligne, di violenza e sesso, di masochismo o tenerezza, oppure edulcorate, colori scintillanti come immagine del "nero" più nero - significa in qualche modo lavorare sulla carne di un paese, toccarne i nervi più sensibili. Troppo per gli spettatori (e i critici). Significativamente, nelle previewssondaggio, una parte del pubblico se ne andava sempre durante la scena della lunga (e poi radicalmente essenzializ;z;ata), efferata messa a morte di Johnny Farragot, cioè il wendersiano Harry Dean Stanton, il solo personaggio simpatico, "normale", l'ancora di salvezza, un punto di riferimento possibile per lo spettatore. L'immaginario come laboratorio, come spettatore. L'immaginario come laboratorio, 45

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