Linea d'ombra - anno VIII - n. 55 - dicembre 1990

IL CONTESTO gliare interminabilmente per sormontare gli ostacoli frapposti dalle autorità locali. Dopo la loro liberazione gli zek sono stati reintegrati nella società dalla porta di servizio, con l'obbligo di fonçlersi nella massa e di dimostrare, zelanti sul lavoro e con atteggiamenti "socialmente positivi", che non erano dei nemici · del popolo; essi sono dunque rimasti con la loro "piccola differenza", la loro particolarità del ricordo e del dolore non riscattati, una comunità invisibile, un ambito di memoria senza diritti, una fraternità quasi clandestina i cui membri si riconoscono bensì tra di loro al primo colpo d'occhio: I "classici" della letteratura del gulag , cosi come quelli sui lager, appartengono a quel tipo di "letteratura del disastro" evocata da Maurice Blanchot; e Salamov sente comeJean Cayrol l'impotenza del reduce (del fantasma che ritorna) a rendere comprensibile agli altri la realtà inconcepibile del campo, questo mondo inedito in cui i dieci comandamenti non hanno più senso e l'uomo si è spogliato di tutte le sue qualità umane. Però nella letteratura del gulag il dolore e il patetismo di questo impossibile racconto aumentano, perché lo stato e la società rifiutano I'esperienza e la memoria dello zek, per calcolo o per istinto. Le rappresentazioni del gulag che ci sono state trasmesse da testimoni come Solzenicyn, Salamov o, più tardi, Marcenko, nascono con lo stigma della.coscienza e della disperazione di non poter venir compresi nella propria società, o quantomeno della particolare condizione di una memoria repressa, clandestina e che circola in samizdat. Va detto altresì che non è che la voce dello zek sia stata meglio ascoltata in Occidente - per ragioni, è ovvio, del tutto diverse. Quando nel 1949 Margarete Buber-Neumann esclama al processo Kravcenko "Io c'ero!", la sua esperienza e la sua parola sono assorbite nel dibattito della guerra fredda, che ha per posta una · domanda ridicola: "esistono campi di concentramento sovietici?" Per molti, allora, la testimonianza della "deportata in Siberia'.' non ha nessun peso, di fronte a paralogismi del tipo "I Sovietici hanno liberato Auschwitz, dunque non possono esistere inUrss campi di concentramento." Con la formidabile faccia tosta che li ha caratterizzati, gli stalinisti d'ogni paese si sono basati nel dopoguerra su giochini del genere. Nel clamore degli scontri r torici della guerra fredda, la parola e la memoria dell'ex zek sono condannate a servire, vengono "arruolate" e non possono, in Occidente, far valere i loro diritti, affermare la loro autonomia e la loro legittimità, conquistare un loro "spazio"~ come sono invece riuscite a fare quelle dei reduci dai lager. Alla svolta degli anni Cinquanta, Margarete Buber-Neumann o Alexander Weissberg, dei "tedeschi", potevano ancora venir visti in Francia da importanti settori dell'opinione pubblica come testimoni sospetti, a meno che, più radicalmente, non accadesse che loro voce discordante non venis- . se ascoltata proprio per niente. · Oggi siamo giunti alle soglie di mutazioni decisive nella percezione e nelle rappresentazioni del gulag sia in Urss che in Occidente; per due ragioni molto semplici e nondimeno decisive: i luoghi dell'universo concentrazionario sovietico cominciano a esser visibili e la battaglia per l'apertura degli archivi dell"'arcipelago" è cominciata. In tutta l'Unione sovietica, il lavoro e l'ostinazione dei militanti di Memorial hanno aperto la strada a cambiamenti che dovrebbero naturalmente sfociare in una vera e propria rivoluzione nella conoscenza storica del gulag. Nòi ne abbiamo fatto l'esperienza in un ambito limitato ma preciso, in occasione di un soggiorno di studi effettuato nella regione di Irkutsk nell'agosto 1990.Accompagnati da due animatori di Memorial della regione (E vgenij Seleznev; detto "Genia", e Leonid Mukin, detto "Lionia", abbiamo esplorato la regione dell' Ozerlag, un complesso di ·campi di concentramento disposti 24 Oui si trovava il campo di "accoglienza" di Taisel. Questa foto tome le successive è di Alain Brosso!. lungo la strada ferrata che collega Taiset a Bratsk, a mille chilometri circa a nord di Irkutsk. Questo complesso spesso evocato nelle memorie degli ex zek sia sovietici che stranieri contava all'incirca ottanta campi ("colonie"), più omeno stabili o temporanei , e di cui le nostre due guide non hanno ancora portato a termine l'inventario circostanziato. Tra la metà degli anni Trenta e la metà degli anni Cinquanta, l 'Ozerlag ha "ospitato" in media, si dice, centomila prigionieri. Primo choc, prima delusione: noi abbiamo introiettato l'immagine mille volte rivisitata in fotografia, al cinema o "sul terreno", dei campi nazisti con i loro segni ed emblemi obbligati, quali l'ingresso di Auschwitz, i mucchi di scarpe, le pile di cadaveri ... Ci troviamo così, volenti o nolenti, alla ricerca di tracce concrete, consistenti, spettacolari: le torrette di osservazione, le palizzate alte e sinistre, il filo spinato, le grandi fosse, le sordide baracche evocate da tutti i resoconti ... La nostra memoria. e la nostra attesa sono condizionate dai ricordi di queste letture e dall'obbligatorio confronto mentale Aùschwitz-Kolyma ... Ed ecco che, per la maggior parte, queste tracce fprti e irrevocabili che noi andiamo evocando .non si presentano affatto. Il naso incollato al finestrino nel treno-lumaca.che unisce Taiset a Btatsk sulla "traccia" (la ferrovia) interamente costruita dagli zek (e niente affatto dalla "gioventù comunista" del komsomol, come dice la leggenda ufficiale), ascoltiamo Lionia, una delle nostre guide, elencare come in una litania, mentre va indicando uno spazio alberato, una zona paludosa, un prato: "qui c'era il campo numero tale, qui c'era un ospedale, qui gli zek lavoravano al diboscamento ..." E non c'è niente, rigorosamente njcnte da vedere, se non pochi resti di tavolati o un palo fradicio che emerge dal suolp. La sorpresa è così totale e la delusione così grande che all'improvviso ci invade il sospetto: e se in questa dovizie di particolari ci fosse più affabulazione che precisione? Più tardi, quando le testimonianze degli ex zek e delle ex guardie del campo avranno fatto sparire ogni dubbio, saremo , portati a fare la seguente riflessione: che traccia avrebbe potuto rimanere, dopo quarantacinque anni, dei campi di Mauthausen, di Struthof, di Buchenwald se la preoccupazione dellà loro conservazione non fosse scattata? I contadini dei dintorni si sarebbero serviti del legname per scaldarsi e dei mattoni e altro materiale per costruire; le condizioni ·atmosferiche avrebbero fatto il resto e di questi luoghi altamente rappresentativi della barbarie nazista, i più rappresentativi di tutti, non sarebbe rimasto-nel caso in cui al loro posto non fossero state costruite ville e alberghi - che vestigia indefinite invase dai cèspugli e dalle erbacce, che i viandanti avrebbero -preso per resti di fabbriche bombardate o

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==