Linea d'ombra - anno VIII - n. 55 - dicembre 1990

Quello che mi ha sempre meravigliato è che nei racconti autobiografici della "seconda generazione" non vengono mai mossi dei rimproverj ai genitori, nessuna lamentela per l'infanzia guastata e la fanciullezza buttata. Anzi, più i genitori si sono comportati in modo malvagio e spietato, più i figli si dimostrano comprensivi. "Se i nazisti non sono riusciti a farmi morire, tu ce la farai di certo." Questa frase Nava Semel l'ha sentita ripetere infinite volte dalla madre. Eppure il suo libro autobiografico Gershona è diversa, pubblicato lo scorso anno in Israele, "non ·vuole assolutamente essere un atto di accusa, provo grande rispetto per questi genitori che sono riusciti a farsi una nuova vita...". I bambini della seconda generazione non solo provano una stima illimitata per i genitori, ma sono orgogliosi dell'eredità chy è stata loro trasmessa. "Abbiamo accettato la pesante responsabilità derivata dalla nostra particolare identità", dice Menachen Rosensaft, fondatore dell'International Network of Children of Jewish Holocaust Survivors. Io non sento di avere alcuna pesante responsabilità e nemmeno una identità particolare. Sono stufo di non poter fare una vita come quella dei miei amici non ebrei, che hanno avuto dei genitori normali, insopportabili come tutti i genitori, ma no11così opprimenti come i miei, che al minimo pretesto mi davano delle mazzate con le loro storie del campo di concentramento riposte.nell'armadio insieme al vestito a righe che mio padre indossava nel lager. Con il passare del tempo ho capito anche che i mei genitori, questi spiriti tormentati sempre a:na ricerca di un senso da dare alla propria sofferenza, non erano di gran lunga i peggiori. Ho sentito delle storie di altri figli di sopravvissuti da far rizzare i capelli. C'era una ragazza della mia età allevata dai genitori da un lato come una principessa e dall'altro come una serva. La figlia era tutta la loro vita, andava custodita e protetta, specie dagli uomini. Sono terribili, le ripeteva semprela mamma, peggio delle bestie. Nonostante l'opera di prevenzione della madre·la ragazza si sceglieva sempre nuovi uomini che la sottomettevano, picchiavano, torturavano. Un giorno la ragazza scoprì che in campo di concentramento la madre aveva lavorato in una casa di tolleranza per SS, dove probabilmente non si limitò a servire da bere. Lei ha dovuto rivivere sulla sua pelle le offese e le umiliazioni subitedal}a madre. Anche quando tutto le fu chiaro non andò in collera con la madre, lei in fondo aveva creduto di dare dei consigli giusti. "I figli dei sopravvissuti sanno di rappresentare per i loro genitori l'unico senso di vita", osserva Helen Epstein. "Molti sopravvissuti hanno riversato speranze e aspettative sui figli, esercitando così una forte pressione su di loro; nei figli vedono la possibilità di ricominciare da capo, e il senso della loro vita stessa", scrive lo psichiatra Shamai Davidson. Certo non possiamo fare la controprova, e verificare l'esattezza di queste affermazioni. Possiamo solo domandarci: come sarebbero stati i rapporti tra genitori e figli se non ci fosse stata la persecuzione? Molto diversi? I genitori ebrei in effetti hanno sempre vissuto per i figli e attraverso i figli, su di loro hanno trasferito tutte le speranze-e le attese,i figli hanno rappres,entato lo scopo e il significato della loro esistenza e sono quindi stati sottoposti a una forte pressione. Tutti i genitori sono come è noto dei ricattatori; i genitori ebrei in questa disciplina sono dei veri campioni. Quando dei figli di sopravvissuti raccontano dei genitori che si sono aggrappati a loro, soffocandoli, privandoli di qualsiasi libertà, viziandoli, controllandoli e coprendoli di amore terroristico, ebbene in questo le famiglie ebree vantano una lunga tradizione. Le mamme e le tate sono sempre state overprotective, sono sempre riuscite a creare nei bambini dei sensi di colpa. Quando un bambino non vuole mangiare, normalmente una mamma gli dice: "Mangia, altrimenti ti ILCONTESTO strozzo!" La mamma ebrea minaccia: "Mangia, altrimenti mi strozzo!" Il .problema dei discendenti ebrei che non riconoscono la fortuna della loro nascita tardiva non è tanto costituito dalle pretese e dalle aspettati ve dei genitori, si tratta piuttosto della impossibilità di opporre una resistenza a queste pretese e a queste aspettative. Come fa un bambino adire ai genitori che desidera essere lasciato in pace, quando gli viene continuamente ricordato tutto quello che i genitori hanno sopportato in nome dei figli! Ogni famiglia, che si tratti di eschimesi o di tuareg, è una sorte di comunità coatta. Ma una famiglia ebrea è qualcosa di più, è la materia grezza da cui Woody Allen e Philip Roth hanno tratto le loro storie. Solo che la realtà non è divertente come la trasposizione letteraria. I bambini ebrei non vivono una vera infanzia. Sin dalla tenera età vengono trattati cpme dei piccoli adulti. E una volta adulti continuano a sentirsi, nei confronti dei loro genitori, come dei bambini. Anche prima dell'olocausto era così, e in seguito ci fu semplicemente un motivo in più per tramandare questa antica tradizione, una tradizione tanto spaventòsa che qualsiasi accenno di ribellione ai genitori equivale a un tentato omicidio. Stando così le cose ai figli dei sopravvissuti non resta che la fuga in avanti, sono costretti a fare.di necessità virtù. La capitolazione di fronte ai genitori, la rinuncia a se stessi vanno quindi considerati degli atti di saggezza e di libera scelta. Non potendo sottrarsi ai fardelli imposti dai genitori, le loro soffere{IZesono allora idealizzate e assunte come impegno personale di vita. "Le esperienzè dei nostri genitori non costituiscono un peso negativo, bensì un punto di forza", dice sempre lo stesso Menachem Rosensaft, accennando in proposito alla "nostra particolare identità", una identità fondata sulle sofferenze dei genitori. La questione ha poi anche un aspetto pratico. In un'epoca in cui è sempre piìrdifficile distinguersi dalla massa nel modo di vestire o di comportarsi o di esprimersi, poter esibire qualcosa che garantisca un certo status, sapere di avere alle proprie spalle una identità particolare è considerato un vantaggio. Avere dei genitori che p~r un pelo non sono stati uccisi vale quasi quanto essere scampati di persona a un disastro aereo: è quakosa di unico. (Sul versante ariano gioca grosso modo lo stesso ruolo un padre delle SS.) Così l'orrore che non è possibile scrollarsi di dosso diventa urìa specie di predicato. A volte da questo rifiuto di sé si riesce anche a trarre qualche piccolo giovamento. Conosco un giovane che voleva lasciare la ragazza non ebrea con cui era stato per qualche tempo. Lui avrebbe desiderato avere dei bambini, le spiegò, ma se la madre dei suoi figli non era ebrea, allora i patimenti dei genitori sarebbero stati vani. Chi sarebbe in grado di avanzare, per una decisione così banale come quella di lasciare la fidanzata, una motivazione altrettanto drammatica, storicamente e moralmente convincente? Io non contesto che i discendenti dei sopravvissuti abbiano dei problemi particolari nei confronti dei loro genitori è di se stessi: how to survive the survivors, come sopravvivere ai sopravvissuti? Credo solo che l'onnipotenza del quinto comandamento - - onora il padre e la madre-:-, cui non corrisponde nessun comandamento che costringa i genitori a trattare come si deve i figli, sia il fattore decisivo e solo il moderno contesto dell'olocausto. La figlia di Tewje, il lattaio, sposò un gentile, poi tormentata dai rimorsi fece ritorno a casa piena di sensi di colpa. Tra il personaggio di Shalom Alejchem e il giovane che lascia la fidanzata non ebrea, perché le sofferenze dei genitori sarebbero state vane se la sua progenie non fosse stata ebrea, sono passate molte generazioni, l' invenzione·della lampadina ... e l'olocausto.L'antico senso di dipendenza e di colpa sono rimasti gli stessi, hanno solo cambiato nome. Le tragedie personali acquistano una dimensione storica. 17

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