IL CONTESTO Le vittime delle vittime Memoria e coscienza ebraica Henryk M. Eroder , traduzione di Giusi Valent Se Hitler non fosse esistito, Berlino sarebbe ancora la capitale del Reich, non festeggeremmo la Settimana della fratellanza, Werner Nachmann non avrebbe potuto appropriarsi dei milioni destinati al risarcimento dei danni di guerra, nei caffè di Varsavia tedeschi, federali e sionisti, si discuterebbe ancora se sia meglio auspicare per le masse ebraiche de li 'Europa orientale una autonomia culturale oppure la costituzione di una patria ebraica in Palestina. E poi Dorte von Westernhagen, Peter Sichrovsky e il sottoscritto non sarebbero mai stati invitati come rappresentanti della "generazione postbellica" a un congresso sull'olocausto organizzato dal Goethe lnstitut a Los Angeles, e non ci sarebbero né i figli dei perseguitati né quelli dei criminali - e neanche articoli, libri e conferenze sulla "seconda generazione". Chiunque· sia il responsabile, creando questo concetto ha coniato una moneta falsa che non è più possibile ritirare dal mercato. I figli dei sopravvissuti all'olocausto sono considerati alla stessa stregua dei discendenti dei nazisti, ossia rappresentanti di quella generazione che ha avuto la fortuna di nascere dopo il 1945. A voler ben vedere bisognerebbe parlare di una prima e non di una seconda generazione, invece di suggerire una continuità storica, sarebbe più giusto accentuarne la rottura. Ma perché tanti figli nati nel dopoguerra insistono nel proclamarsi la "seconda gen,erazione" e non la prima dopo la tragedia? Posso anche capire che i figli dei nazisti o dei fiancheggiatori del regime disperati vadano a rovistare nel passato dei loro padri e delle loro madri, ma perché un numero così elevato di ragazzi ebrei ritiene tanto importante proseguire la storia di sofferenza dei loro genitori? Una decina di anni fa Helen Epstein ha raccolto in un libro una serie di conversazioni con figli di sopravvissuti all'olocausto: Children of the Holocaust. Le testimonianze costituiscono un museo degli orrori. "Io volevo soffrire," racconta una figlia di sopravvissuti "perché i mei genitori e tutti i nostri parenti che sono morti erano così nobili d'animo e valorosi e hanno sofferto. Pensavo che per essere nobile d'animo dovevo soffrire anch'io." Nel loro sforzo di emulare i genitori alcuni figli arrivarono al punto di mettersi intenzionalmente in situazioni che ponevano a repen11forno crematorio di Dachau. 16 taglio la loro vita: uno confessò di essersi presentato volontario per il Vietnam. "Volevo essere anch'io un sopravvissuto. Entrai nell'esercito. Il Vietnam sarebbe diventato il luogo della mia sopravvivenza". Molti figli di sopravvissuti parlano di incubi ricorrenti a distanza di anni. Helen Epstein cita due incubi che spesso si presentano davanti ai suoi occhi. "Quando mia madre mi portava al Camagie Hall immaginavo che degli uomini con il cappotto nero irrompessero nella sala e uccidessero tutti. Quando mi trovavo in metropolitana nell'ora di punta avevo l'impressione che i vagoni fossero diretti ad Auschwitz ...". Davanti a documenti di ~uesto genere io provo una certa repulsione. Come ai lavoratori non fa piacere vedere dei documentari sullo sfruttamento della classe operaia, così io non ho nessuna voglia di sentire la mia storia raccontata da altri. Se con orrore e sgomento dei miei genitori mi lasciavo crescere i capelli fino alla vita, loro dicevano: "È per questo che siamo sopravvissuti?" Se uscivo c_ondellera&azze che a loro non piacevano, vale a dire quasi tutte, dicevano: "E per questo che siamo sopravvissuti?" Se tornavo a casa tardi la sera, dicevano: "È per questo che siamo sopravvissuti?" Erano sopravvissuti solo in funzione mia, per potermi mettere al mondo. E io come li ricambiavo? Torturandoli. Per colpa mia erano sempre costretti a chiedersi se non sarebbe stato meglio non essere sopravvissuti ad Auschwitz e Gross Rosen. Quello che non sono mai riuscito a capire era perché i miei genitori, dopo lo scampato pericolo, non considerass~ro la vita come un dono divino, perché non si gustassero doppiamente ogni singolo istante. Erano capaci di fare soltanto una cosa: soffrire. E per di più cercavano di rovinare ogni mio divertimento. Volevo partecipare a una dimostrazione, a un festival jazz a Francoforte o passare un week end ad Amsterdam, ero consapevole di fare qualcosa che i miei genitori reputavano assolutamente inutile ("Gojim naches! "),c'erano sempre infinite discussioni estenuanti sull'argomento, se era proprio necessariò andare, e che cosa mi mancava in casa e quanto sarebbero stati contenti i mei genitori in campo di concentramento se solo avessero avuto un tetto sopra la testa e da mangiare a sufficienza. Alla fine la spuntavo quasi sempre, andavo alle dimostrazioni, a Francoforte, ad Amsterdam, ma lo facevo sempre con una sensazione alla bocca dello stomaco, come se avessi aggredito due vecchi per la strada. Ovunque fossi, qualsiasi cosa facessi: un pensiero ai miei poveri genitori che erano a casa, a meditare sulla loro vita squinternata e sul figlio degenere-e il divertimento era bello che finito. Provavo rabbia per i miei genitori e odio verso me stesso, per quello che loro avevano fatto a me e per quello che io avevo fatto a loro. Se agivo di testa mia ero attanagliato dai sensi di colpa, se assecondavo i loro desideri la rabbia che cresceva dentro di me mi faceva paura. L'affetto che nutrivo nei loro confronti era grosso modo direttamente proporzionale alla rabbia che essi risvegliavano in me. E non mi consolava sapere di non e~sere l'unico in questa situazione.
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