Linea d'ombra - anno VIII - n. 54 - novembre 1990

T E A T R o· IL REGALO E IL LAVORO LAPARTEDELLOSPETTATORE A TEATRO PiergiorgioGiacché La prima meraviglia del Teatro è trovarvi ancora dentro gli spettatori. Uno spettatore a teatro, "perché ci va?" E cosa ci va a fare? E per quanJo tempo ancora ci andrà? ... Lasciamo perdere le vecchie abitudini e le nuove convenien:z.e: le vecchie e ricche signore con pelliccia oggi ringiovanite emoltiplicate nei benvestiti abbonati di ceto medio, di età media e di scuola media. Dimentichiamo gli studenti e i popolani colti de_/loggione, oggi rimpiazzati dai ritardatari che non hanno trovato posto in platea, ma che certamente non fanno e non hanno più questioni di prezzo. LascianJO perdere tutto questo straordinario pubblico del teatro "ordinario", del teatro da biblioteca a colori o da repertorio, che è divenJatoparte delle indispensabili vacan:z.eintelligenJi e sa farsi forte della nuova ideologia dei servizi, come sa farsi spazio nella affollata pubblicità dei consumi culturali. Più esattamente cioè, lasciamo perdere ifenomeni massivi e le spiegazioni superficiali che una sociologia facile facile sciorina sull' attuale resistibile ascesa del consumo teatrale, eproponiamoci una domanda che vada oltre il modo correnJe di andare a teatro, che cerchi a tutti i costi le implicazioni e i coinvolgimenti più rari ma più profondi, che per scommessa ma anche per forza debbono pur esserci nel magma motivazionale di uno spettatore virtuale. Allora magari scendiamo in quelle che una volta erano le "canJine", e oggi sono le "sale d'essai" un po' introvabili e un po' disagiate, e troveremo che mano a mano che lo spettatore si rarefà, la domanda sul suo andare a teatro si intensifica. E, rima ancora di diventare più vera e più complessa, si impone con tutta evidenza. · Ci sono luoghi dove non è possibile non meravigliarsi nel trovareanche pochi - spettatori. Ci sono livelli dove non vale più parlare di pubblicità, di consumi superintelligenti, di curiosità per le mode emergenti. E se vale ancora, non giustifica nessun risultato e ancor meno giustifica lo sforzo. Perché si può giurare sul fatto che uno sforzo, nel/' andare a teatro (forse in· qualche teatro, al giorno d'oggi) va fatto. Ed è proprio sull'entità e la direzione di questa "fatica" che conviene discutere, dal momento che la vera e più giusta domanda che si pone lo spettatore moderno- lo spettatore educato dal cinema e trasformato in tele.1pettatore-non è quella sul "perché" ma quella sul "come". O meglio sul "perché mai bisognerebbe andarci" e sul "come converrebbe atteggiarsi e comportarsi" per trarre-dalla relazione con lo spettacolo - il massimo del vantaggio. O, per i più esigenJi, del "piacere". Lo spettatore teatrale rischia di essere senza definizione. Una grande ·massa di "riceventi" e di "utenti" - a seconda se misurati come parte dcli' audience o della clientela - lo ha benevolmente assorbito al suo interno. Diventato aggiornato e compiaciuto "consumatore", lo spettatore teatrale ringrazia: sembra perfino aver perso la sua antistorica differenza, sembra essersi salvato dallo snobismo ma anche dall'emarginazione. Un po' aristocratico in fondo resta sempre: un qualunque spettacolo teatrale, sia pure di enorme successo, sarà pur sempre visto da un 'élite! Ma la soddisfazione di essersi omologato e integrato - pur restando raro e prestigioso -nel mare democratico dei tele/spettatori, non compensa del tutto o per sempre la perdita della sua obsoleta "diversità". Il problema nasce proprio durante la fruizione dello spettacolo: a teatro la differenza si fa ancora sentire, e prende volta a volta la forma dell'incomprensione, della difficoltà, della noia ... Non sempre- e non in tutti i teatri - la noblesse obbliga e per davvero gratifica un tale sacrificio. In quelli giovani e sperimentali, in quelli scomodi e indigenti, dove la difficoltà aumenta al pari della sfida o dcli 'improvvisazione, l'emergenza della moda quasi mai appaga l'altra emergenza, intesa come somma di stenti e &bisogni (sul piano della realtà come della finzione), che pure si debbono attraversare o condividere anche se solo per due ore. La domanda di una propria definizione che ritorni a considerare e valorizzare la "differenza" di qu~l teatro diventa importante anche per lo spettatore: anche per lui è conveniente sentirsi "diverso" o almeno impegnato e coinvolto in una differenza che altrirnenti diventa pura e pesante (e talvolta perfino sinceramente "insopportabile'') difficoltà. Allora - per fortuna! - lo spettatore si può accorgere che non è ancora - o non sa fare - lo spettatore di teatro. Che non è sufficiente e nemmeno possibile andare a teatro e compiacersi di una definizione di cliente che gli assegnerebbe una libera e superficiale relazione di acquisto e godimento della merce. Almeno in questo particolare caso del "teatro sperimentale" (ma a partire da lì la scoperta si può espclrlare in tutti i casi di tutti i teatri) non ci si pone il problema se sia merce buona o cattiva, gradevole o indigesta: ci si pone-prima-quello di un "rapporto" (con il teatro, la scena, l'attore) che non sia di compravendita. li che vuol dire che, se il paragone o la riduzione a merce regge sempre e comunque, nonostante le proteste degli alternativi e le speranze dei puri, non regge altrettanto bene 1'omologazione o la riduzione del teatro a "mercato". Si tratta insomma, a prescindere dal rito dell'acquisto e dal gioco del prodotto che - dopo - avranno certo il loro senso e il lor peso, di realizzare - prima - un comportamento e un atteggiamento di più complessa e profonda relazionalità, senza il quale non si compie appunto "la relazione fra attore e spettatore", ecioènonavviene il teatro. (E il teatro è un avvenimento piuttosto che un evento, se si vuole andare per il sottile.) Ma la metafora produttivistica o mercantile che semplificherebbe il rapporto dello spettatore teatrale uguagliandolo a quello di un cliente qualunque di un negozio qualsiasi, tanto funziona quanto non soddisfa: non è che il teatro non ha da essere commerciale-e come potrebbe?·- ma non può spiègarsi né vivere ali 'interno del linguaggio e della logica economica. Anche nelle versioni meno nobili o nobilitate del "commercio teatrale", o del teatro commerciale, l'attore può prostituire ma non vendere lo spettacolo; lo spettatore può diventare consumatore ma non ridursi ad acquirente. C'èqualcosadi piùèomplesso e di più gratuito senza il quale si perde la sostanza di un incontro emotivo e intellettuale, si perde la "qualità", qualunque sia, dcli '.interazione cercata o provocata o finta. Per usare un modo di dire più "teatrale", lo spettatore si accorge che, a teatro, non si può andare "senza avere arte né parte". E prima dell'arte, che può creare equivoci e conflitti saccenti con il ruolo del regista, dcli' autore e dcli' attore, qual' è la "parte" dello spettatore? Lo spettatore di teatro deve almeno soddisfare due compiti: deve portare un regalo e deve svolgere un lavoro. Senza il regalo non c'è scambio, senza il lavoro non c'è equilibrio nel rapporto che il teatro inevitabilmente propone (e che il teatro di ricerca - o almeno una sua considerevole area - considera il centro ·della sua definizione e del suo senso). Il regalo è la parte assegnata dalla convenzione teatrale allo spettatore: non si va a trovare qualcuno senza un dono. Il biglietto o il denaro non sono più ·sufficienti né lo sono mai stati: possono pagare il lavoro dell'attore ma non il suo regalo. Occorre offrire un impegno da scambiare a un altro livello, per ricordare il legame e la scelta in cui consiste e con cui si valorizza un "incontro", fuori dalla tentazione di ricondurre il rapporto sul piano dello scambio o dcli' uso. Non è importante se è su quel piano che avverrà la vera e propria interazione teatrale, l'offerta e il consumo dello spettacolo; il "regalo" è importante per riconoscere lo spazio e il senso di una precondizione dello spettatore che non si esaurisce nel tempo di una premessa, ma che invece perdura e sostiene la qualità 1ao

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