Linea d'ombra - anno VIII - n. 54 - novembre 1990

ILCONTESTO La lingua possibile della speranza Razzismo e non razzismo Gianfranco Bettin "Oh Dio come è strano il mondo. L'immigrato è l'uomo quaJunque del ventesimo secolo. Non è così?" si legge a un certo punto nel Budda delle periferie, il romanzo di Hanif Kureishi (Mòndadori) che fin dalla prima pagina, dalle prime parole si presenta come un testo di quest'epoca di circolazione e fusione di etnie e razze e nazionalità: "Mi chiamo Karim Amir e sono un vero inglese dalla testa ai piedi, o qua<;i. La gente tende a considerarmi uno strano tipo di inglese, magari una nuova razza, dal momento che sòno il prodotto di due vecchie culture". È stata precoce in Inghilterra questa esperienza del confronto e dell'assimilazione, spesso traumatica e dolorosa. Il vecchio impero coloniale ha lasciato in eredità agli inglesi una larga misura del mondo, un'ottica vasta inscritta nello sguardo del dominatore e prolungatasi al di là del crollo. Londra è stata ben presto un crocevia e un punto d'approdo di traffici planetari, luogo d'immigrazione\ di ricominciamento, luogo di tensioni e speranze, di connitti razziali, e anche di incubazione di "strani tipi" come Karim Amir, cioè Kureishi, geniale sceneggiatore di film costruiti sullo sfondo di questa Londra, come My Beautif ul Laundrelle e Sammy e Rose vanno a le110 e di questo ·romanzo brillante e complesso sull'Inghilterra multirazziale. Avevo sentito dichiarazioni d'identità simili a quelle di Karim-Hanif una paio d'anni fa tra gli immigrati italiani in alcune regioni d'Europa. Svolgevo una ricerca sulle loro condizioni, sullo stato dell'integrazione e sulla voglia di tornare in patria in particolare delle giovani generazioni dcli' emigrazione, e mi sono imbattuto in una realtà molto diversa da quella che i committenti ipotizzavano. Durante le interviste i giovani, a volte giovanissimi · italiani all'estero si dichiaravano tranquillamente "europei e basta" qua5i tutti. Non tanto francesi, belgi, tedeschi o svizzeri, quanto "europei". Soprattutto nelle zone dove la loro condizione materiale era ancora difficile (in gran parte l'emigrazione italiana in Europa ha raggi4nto buoni livelli di integrazione e di benessere · economico) questa tensione sovranazionale si esprimeva inmodo più convinto. A Charleroi, in Belgio, nei distretti siderurgici e carboni ferì che la crisi ecm1omicaha segnato pesantissimamente, ho partecipato ad alcune assemblee dei lavoratori italiani e a un convegno dei giovani delle Acli (una delle maggiori organizzazioni dcli' emigrazione) in cui la richiesta di integrazione europea,. di unione, si poneva come l'orizzonte di tutte le altre rivendicazioni, tra le quali il diritto di voto almeno nelle loèali elezioni amministrative. Con molta fierezza, ripetutamente, numerosi intervistati si dichiaravano gli autenJici primi europei, di "un'Europa che non è quella dei mercanti e dei padroni o degli eserciti: l'Europa dei popoli". Alcuni erano anche, come dire?, anagraficamente e genealogicamente, oltre che linguisticamente, frutto di questa assimilazione continentale. Come la ragazza nata in Germania da padre siciliano e madre spagnola, o un altra, sempre nata in Germania, ma da padre pugliese e madre svedese. Ragazzi che hanno dunque almeno due e spesso tre lingue-madri, e due o tre "patrie". Mi era sembrato, allora, di vedere in carne e ossa il formarsi di un'Europa possibile. Non senza conflitti né pericoli, ma possibile, non solo di carta e di moneta, ma vera, vissuta. Tornai da quel giro nell'emigrazione italiana con un certo ottimismo. Tra l'altro gli emigrati che avevo incontrato, anche quelli ormai "garanti ti e benestanti" (cioè la gran parte), mi sembravano conservare un'umanità sempre piìi rara da vedere in Italia, non dimentica delle proprie radici né cieca, dopo la propria sventura scampata, ai drammi altrui, all'altrui povertà e ricerca di una speranza. Così nel parlare di sé moltissimi narravano degli ultimi arrivati, dei nuovi immigrati: non solo dei turchi, già da tempo presenti soprattutto in Germania, ma dei senegalesi, dei marocchini e tunisini e di tutti quelli provenienti dal mondo arabo, da tutta l'Africa, dall'Asia. Le loro condizioni apparivano intollerabili anche a chi ne aveva, a sua volta, a suo tempo, passate di brutte. Non mancavano, beninteso, accenti di rivalità, timori di concorrenza, e anche una sorta di ansia d'integrazione che-portava a marcare il distacco con questi "ultimi arrivati"., sottolineandone la diversità di cultura e abitudini, di religione, di colore, di stili di vita. Ma erano, questi, accenti rari e semmai più frequenti nei giovani che sapevano ormai pochissimo dell'esperienza dell'emigrazione, figli della seconda o terza generazione di emigrati italiani, i più integrati e più distan_ti dalla stessa Italia (che conoscono quasi solo come paese delle vacanze, condividendo per il resto pregiudizi e luoghi comuni diffusi all'estero). Così, insieme a un prudente ottimismo relativamente a una possibile Europa dei popoli, ne ricavai anche una parallela inqUietudine rispetto ali' incontro di questa Europa, anche di questa "popolare" e non solo di quella dei "padroni", con le nuove leve-dell'immigrazione, provenienti da fuori continente, dal mondo sconfinato e affollato della fame e della sete, della disperazione, della persecuzione. Quel mondo- a cui l'Occidente invia messaggi abbaglianti e ipnotizzanti, richiami di sirena irresistibili che sono presidiati dagli eserciti e dàlle tecnologie di morte più micidiali mai realizzate, l'arma più efficace e devastante di cui disponga. La questione degli immigrati extracomunitari, si è rivelata anche in Italia cruciale e difficile da governare. L'Italia, paese della lunga emigrazione, della recente povertà, eterno paese dei buoni sentimenti si e rivelata una terra spesso ingrata, ostile al viaggio e alla ricerca di un lavoro, di una casa, di una speranza. Giustamente Laura Balbo e Luigi Manconi nel loro I razzismi possibili (Feltrinelli) invitano a non esasperare i contenuti e i fatti reali presenti in alcuni episodi di razzismo, nonché a non sottovalutare le numerose difficoltà che la questione dell'immigrazione extracomunitaria implica come è emerso nel dibattito seguito a questo o quell'episodio di intolleranza o di vero e proprio razzismo e nella discussione 6:heha accompagnato l'iter della cosiddetta "legge Martelli" (analizzata nel libro dettagliatamente in u~ contributo del giurista Bruno Nascimbene e i cui primi effetti vengono valutati da Marina Forti). Nessun allarmismo, dunque. Nessun faèile ottimismo o utopismo sulla nuova società multirazziale e interetnica. Ma sono proprio Balbo e Manconi a notare çome, in questa vicenda, stia emergen_do un tratto particol~e della società italiana: il suo essere un "sistema monoculturale e monocolore; un sistema nazionale omogeneo, culmine di una storia lunga un secolo segnata dalla "monocultura religiosa" d:l cattolicesimo (altri paesi hanno invece un'esperienza di plur~1smo religioso), dall'omologazione linguistica, da un comune ~•po medio prevalente di italiano: "cittadino, lavoratore, cattol_1co, scolarizzato, bianco". Gli scartamenti da questo modello strido- •

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