II La mamma dormiva, mentre le mie sorelle e io, rese imbarazzate e premurose dalla sua malattia (la sua pazzia), aereavamo e pulivamo la casa, lustravamo le tavole di alburno ingombre delle stanze di ricevimento, gettavamo via giornali vecchi, piante secche e cibo guasto. E, (come se lei fosse già morta), aprivamo le lettere che non avevano ricevuto risposta, is~zionavamo il contenuto della scatola di famiglia che teneva sotto il letto, e , sfogJi~vamo gli album di cartoline e fotografie .. 'E straordinariamente forte per·una donna di novant'anni', disse il dottore, 'Il cuore e i polmoni sono buoni, ma il cervello è andato'. Non che sragionasse, ma era stizzosa e impicciona: ecco perché eravamo state chiamate. Aveva gettato la minestra contro l'infermiera della notte. Sparivano le sue 'cose', diceva, e tuttiil dottore, i vicini, le vecchie amiche - erano stati accusati di furto. Sputava le pfllole. Viveva nel passato. Quale di noi, chiese il dottore, aveva posto e tempo e pazienza sufficienti da offrire una ca<;aalla mamma? 'Nessuna di noi è giovane, dissi. 'lo ho settantadue anni. Il mio cuore e i miei polmoni non sono forti, non come quelli della mamma, e fumo. Tutte fumiamo'. Il dottore si strinse nelle spaUe. Il suo dovere l'aveva.fatto. Adesso toccava a noi trovare una soluzione. Fotodi George Rodger. STORIE/CRACE Fu per le sigarette che scoprimmo una fotografia che nessuna di noi aveva visto prima. La tirai fuori da una fragile busta fra le monografie e le dissertazioni che la mamma aveva conservato dagli archivi del babbo.• Un pallido triangolo incorniciava la fotografia in cui settant'anni di luce avevano sbiadito la stampa. Era del 1914, l'anno della mia nascita, Il babbo, che con la sua incipiente barbetta, dimostrava più dei suoi trentacinque anni, era seduto nella veranda, a tavola - quella che adesso si trovava in un angolo della stanza della mamma, zeppa di medicine. La mamma- un po' sfuocata - era in piedi al suo fianco e stava drammaticamente tagliando fette di cocomero per gli ospiti e per la macchina fotografica. Riuscimmo a riconoscere una o due facce, le versioni giovanili dei remoti professori, e delle loro mogli, che lavoravano col babbo ali 'Istituto e che quand'eravamo bambine ci avevano jgnorate. Riconoscemmo anche le stoviglie, e le sedie, e le bianche cime dei cespugli di fessandra dove allora - e anche adesso- si rifugiavano i gatti. La cameriera 'rapita' che se ne stava alla luce del sole al margine della veranda, mezza girata e sorridente alla macchina fotografica come gli ospiti, era . - come l'aveva descritta la mamma - una tredicenne minuta e dolce. Indossava i guanti per servire e un vestito di cotone bianco. Lungo il fianco teneva un vassoio vuoto. Era a piedi nudi. Di tutta quella gente sem):,ravala meno imbarazzata: non cercava di presentare niente di se stessa, tranne il sorriso. 'Beh, sembrava abbastanza felice', dissi.
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