Linea d'ombra - anno VIII - n. 54 - novembre 1990

CONFRONTI Tra Proust e Gandhi Le linee d'ombra di Amitav Ghosh Afarisa Caramella Anita Desai, scrittrice indiana di grande val ore, in occasione di una visita a Milano per il convegno organizzato lo scorso aprile da "Linea d 'om hra", parlando del suo romarizo In custodia, appena pubblicato da la Tartaruga, ebhe modo di spiegare come la rivalità tra musulmani e indù nel subcontinente asiatico vçnga abilmente fomentata, ingigantita, strumentalizzata fino ad assumere.nei mass media dimensioni apocalittiche, da g'ovemi e partiti politici interessati a che questa rivalità non muoia, a che continui invece a servire da pretesto a giochi politici che con la religione e la culh1ra hanno poco a che fare. Un argomento che in questi giorni di crociate per il Golfo andrebbe tenuto nella dovuta considerazione, e che invece troppo spesso l'occidentale, anche ben intenzionato, dimentica, letteralmente sopraffatto da campagne stampa, da notizie ufficiali e ufficiose tendenti a esaltare al massimo, a esasperare ogni differenza, ogni antiça e nuova rivalità. Leggere Le linee d'ombra (Einaudi, trad. di Anna Nadotti, pp. 316, L. 36.000), il nuovo romanzo dell'indiano Amitav Ghos]:i,scrittore di lingua inglese già noto in Italia per un precedente libro pubblicato da Garzanti con il titolo di Il cerchio della ragione, proprio in un periodo come questo, tra il marteilare della stampa occidentale dalla cui univocità poche voci si discostano, è un'esperienza che non si limita al letterario, ma sconfina necessariamente nel politico, e obbliga alla riflessione, a fare i conti con la cattiva coscienza dell'Occidente. . Ora, di tentativi analoghi la storia della Amilav Ghosh in una foto di Sanjeev Saith (Garzanti). letteratura di lingua inglese degli ultimi anni abbonda, e ipiù interessanti esempi di narrativa a sfondo politico sono, non a caso, opera di scrittori di origine coloniale, e acquistano, per questo stesso fatto, un'originalità dovuta al punto di vista dello scrittore, eccentrico, necessariamente estraneo a una o all'altra delle culture che rappresenta in lotta. C'è l'esempio di Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana di origine europea, che lotta strenuamente da decenni, sulla pagina, contro l'apartheid, raccontando storie di sapore "autentico", popolate da una quantità di personaggi di colore, rilevanti ai fini della narrazione, con risultati non sempre ottimali: valga come esempio l'ultimo romanzo della scrittrice, pubblicato negli Stati Uniti da Farrar, Straus e Giroux, con il titolo di My Father' s Son. È la storia, raccontata in prima persona, del figlio di un leader dell'opposizione nera alle prese con il crollo della figura patema, causato dalla scoperta di una relazione extraconiugale dell'uomo con una donna bianca. La prosa della Gordimer, autrice sempre attenta a esprimere nobili sentimenti senza cadere nel sentimentalismo, e abile a creare sulla pagina situazioni in cui pregi e difetti, meriti e colpe, torti e ragioni di oppressori e vittime si bilanciano in una ricetta ben dosata di sicuro effetto sul lettore, questa volta si tinge dei forti colori del realismo nero: l'iconografia della famiglia di sudafricani neri ha il sapore dello stereotipo, la moralità assume toni moralistici, la difficoltà dell 'autrice alle prese con una materia che il 'suo occhio di bianca può aver solamente osservato è evidente più che in ogni altro suo romanzo, anche se non costituisce un'intera novità per chi abbia letto la Gotdimer dagli esordi. Il difetto, se così si può chiamare, di una scrittrice di indubbio valore e di sicura fedepolitica, è sempre stato, ed è ora inmisura maggiore, quello di osservare la realtà del proprio paese sconvolto dal dramma dell'apartheid con gli occhi molto attenti, politicamente esperti e intelligenti, volutamente umili, dell'osservatrice di cultura occidentale. Fin qui tutto bene, se l'umiltà dell'osservatrice, proprio perché voluta, non trasmettesse · invece al lettore una sgradevole sensazione di presunzione, non voluta, questa, connaturata, frutto non della coscienza, ma di un inconscio da lungo tempo pi'egato a un'ottica necessariamente "diversa", dando al termine il significato ormai acquisito di altro dalla cultura dominante. Molto più interessanti, quindi, sono sempre i romanzi che hanno per tema questioni o semplicemente confronti razziali e di "diversità" visti con gli occhi di chi può identificarsi con la cultura oppressa, o semplicemente minoritaria, a pieno titolo, perché ne fa parte. Le linee d'ombra è un esempio purissimo di questo tipo di narrativa. Non che il tema del libro verta unicamente sul problema della difficile convivenza tra mussulmani e indù, o tra indiani e inglesi, o sulla storia dei tumulti e della guerra che portarono alla spartizione della terra bengalese, al nuovo confine tracciato con una linea visibile soltanto sulla mappa. Amitav Ghosh procede per quadri e spezzoni di storia e storie, la cui struttura è saldamente radicata nell'inconscio, che salgono improvvisamente alla coscienza da zone oscure e senza suono per trasformarsi alla fine, liberatoriamente, in parola. La parola "che non c'è" per descrivere certi stati d'animo troppo difficili da affrontare. La logicadell 'inconscio non riesce ad afferrare l'illogicità degli avvenimenti trau_matici, e li tace. Pochi scrittori, a mio avviso, sono riusciti come Ghosh a introdurre i momenti di rivelazione in modo così spontaneo e insieme sistematico, cogliendo di sorpresa un lettore che pure era stato preparato per gradi alla presenza nella narrazione di cose taciute. Intervistato di recente, Amitav Ghosh ha ammesso un debito con Proust, per quanto riguarda la tecnica della sua narrazione, e con Gandhi, per quanto riguarda la sua posizione politica. Ed è vero che le atmosfere della vita del protagonista che racconta in prima persona, e dei suoi intimi e familiari, hanno i sapori, i colori e la consistenza di una Calcutta, di una Londra e di una Dacca viste attraverso l'occhio della memoria, e ·di unà estraneità che è quella dell'infanzia e della prima giovinezza È anche vero che la vivacità con cui emergono dal ricordo, disegnate con in.solita chiarezza, le figure delle persone care, deve parte del suo fascino al contrasto con il resto di una narrazione densa di riflessioni di carattere morale, o politico, o semplicemente esistenziale. Ed è infine vero che quello che rimane impresso nella memoria del lettore è invece la sintesi che Ghosh riesce a fare tra avvenimenti e riflessioni sui medesimi, tra quadri di violenza e sofisticate affermazioni dcli' essenziale non violenza della natura umana in sé, non "turbata'' dalla organizzazione civile in subbuglio o in mutamento. Il conflitto, in Ghosh, sia esso conflitto personale, interiore o con l'altro, o politico, tra popoli, tra stati o culture, possiede sempre tinte morbide, di devastante dolce,:za, possiede quella qualità, che è propria della cultura indiana stessa, di opposto di sé, di conciliazione, di possibilità di infinite coesistenze, che lascia tanto perplesso e spesso infastidisce e irritala schematica mente occidentale. Una dimostrazione di abilità letteraria tanto più notevole in quanto fornita in una lingua èhe è quella per antonomasia dell'Occidente. L'inglese sembra piegarsi a toni e sfumature nuove, con la penna di Ghosh, e se qualche perplessità sorge nel lettore, riguarda la difficoltà di ascoltare quel suono così elegante e misurato (magnificamente reso in italiano dalla traduttrice) e prestare contemporaneamente l'attenzione dovuta alle riflessioni intelligenti, brillanti, dell'autore della musica. La storia è quella di due famiglie della borghesia, britannica e indiana, sullo sfondo 31

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