Linea d'ombra - anno VIII - n. 54 - novembre 1990

CONFRONTI È di fronte a cose come queste che viene da chiedersi: che ne è dell"'innocenza primordiale", dell'austerità, del rigore che prometteva la scrittura di Acheng? Come fanno a convivere l'arcaica sacralità del suo "nominare" e l'astuta retorica della vicenda? Possibile che la prima non risulti corrotta dalla seconda? O che la seconda non sbiadisca nel rigore della prima? È nella risposta a simili domande che dimora la vera acrobazia di Acheng. A una prima lettura, l'impressione è che la scrittura passi miracolosamente indenne dall'ideologica mistificazione del percorso narrativo: e che così, in certo modo, la redima. Ma è un effetto ottico. Guardata più da vicino la scrittura di Acheng mostra tante piccole complicità con la retorica del narrato: microspostamenti significativi, minute astuzie drammaturgiche, impercettibili cambi di ritmo. È chiaro che se uno adotta una scrittura "bianca", innocente e primitiva, poi bastano minuscole increspature per ottenere un qualche effetto. "Segni" che in un narratore qualunque scomparirebbero come banali1à, in Acheng diventano boe significative della narrazione. Per dire: in una scrittura "protocollare" come quella di Acheng l'apparizione di una metafora suona immediatamente come una sottolineatura spettacolare: poco importa poi che sia assolutamente banale (il clamore della folla risuona come un tuono, lo sguardo del protagonista è affilato come una lama di coltello): già solo il fatto che ci sia lascia il segno. Altrove, la necessità di preparare passaggi di particolare intensità o spettacolarità viene risolta con inezie da nulla. "Lui sospirò, scrutò il soffitto e dopo una lunga pausa disse". Una formula del genere, seminata in mezzo a un dialogo, serve a introdurre un giro di vite del colloquio, e l'arrivo di una confessione del protagonista. Quel "sospiro" e quella "lunga pausa" sono un niente, e nel contesto di una scrittura normale scomparirebbero: ma nella scrittura arcaica di Acheng diventano quasi una formula rituale che torna poi altre volte sempre ad aprire il sipario, con quel gesto da nulla, a passaggi particolarmente significativi: crocevia inappariscenti di una drammaturgia invisibile. Sotto un profilo squisitamente tecnico, l'abilità di Acheng sta tutta in quel saper ridurre al minimo il livello di "corruzione" della scrittura necessario a reggere una storia sostanzialmente retorica. Per un certo. tipo di lettore occidentale - evoluto, insofferente alle ruffianerie narrative, sanamente moralista-una simile acrobazia offre un piacere rarissimo: poter consumare, ancora una volta, la retorica colpevole di un plot ritrito, al riparo di una scrittura che tutto redime e rende innocente. Filtrata dalla studiata indigenza della prosa di Acheng, la bella favola del pistolero solitario ritorna finalmente accessibile, perché riportata all'impassibilità sacrale di un'iscrizione antica. Enunciata così, sembra una formula aurea, infallibile: basterebbe un niente per adottarla come modello. Ma manca un tassello fondamentale alla sua completa definizione: qualcosa che in essa dimora e che in definitiva la fonda, la legittima, dall'interno, facendola anche sfumare, per l'Occidente, a magia inimitabile. Niente si può capire della prosa di Acheng, se non si fa ruotare tutto ciò che la compone intorno a quel nocciolo duro ineliminabile e fondamentale che è: la fame. Proprio la fame di chi non ha da mangiare: semplicemente e Jet-· teralmente quella. La fame. Chiunque legga/1 re degli scacchi può accorgersi della cura e dello spazio sproporzionati che l'autore dedica al tema del cibo. Il mangiare occupa i pensieri e gli atti dei personaggi con maniacale ossessività. È un tormentone che, a volte, arriva a boicottare le elementari regole del narrare, aprendo falle apparentemente insensate nel tessuto del romanzo. Quando Wang Yisheng, il re degli scacchi, arriva nella azienda agricola del narratore, gli viene presentato Na Bin, il campione di scacchi del posto. Ovviamente scocca la sfida. Ma prima, inevitabilmente, si mangia. Potrebbe anche funzionare come 'espediente per caricare di suspense il racconto, rinviando la sfida e sospendendo il lettore in un'attesa interlocutoria. Ma in Acheng la cena è molto più che una breve preparazione per il climax della partita: diventa un rito spiegato nei minimi particolari, con esasperante meticolosità. Il risultato è che le gerarchie, alla fine, risultano ribaltate: la cena dura quattro pagine, la partita che segue, due; la cura dello scrittore nel descrivere la cena è di gran lunga superiore a quella con cui racconta la partita; il lettore finisce per saper tutto sulla ricetta del serpente in padella e pochissimo sulla attesa sfida: giusto chi è il vincitore. Ossessivo, invadente, intoccabile, il tema della fame finisce per rivelarsi come il polo magnetico che tiene insieme le sessanta pagine del libro. Il mondo letterario di Acheng ha una precisa genesi: in principio era la fame. Poi, tra le pieghe della fame, scivola via la letteratura. Ma la fame resta, come matrice originaria, come patrimonio genetico, come shock inaugurale: non c'è quasi parola, .in Acheng, che non tramandi la memoria della fame. Qui sta il segreto della sua scrittura: che non è un artificio letterario calato dall'alto, ma è il diagramma obiettivo di un mondo strozzato dalla miseria. L'indigenza .della scrittura di Acheng è la sedimentazione, sulla carta, di una miseria radicale che giace immobile sulla vita. Per quanto sia difficile ricordarsene qui, nel ricco Occidente, esistono miserie vere e totali: di fronte ad esse, la parola che semplicemente le pronuncia è già letteratura. In un•esistenza schiacciata dalla necessità, la semplice parola che nomina quel dolore è già liberazione. In ciò si legittima la scrittura "bianca" di Acheng: essa è coniata dalla miseria e porta inscritto l'ossessivo sigillo della fame come garanzia e difesa contro qualsiasi falsificazione. A questa suggestione - di una letteratura riportata indietro, dalla morsa della miseria, a una splendida e "innocente" condizione inaugurale - Acheng aggiunge una timida ambizione: incuneare in quel · tipo di letteratura il "lusso" dell'immaginazione e della retorica. La morale del libro è raccolta nel pensiero finale del narratore: "La mia famiglia è stata distrutta e ora mi ritrovo tutti i giorni a zappare. Eppure qui c'è della gente vera che è una gioia e una fortuna aver conosciuto. Il cibo e gli abiti sono dei bisogni fondamentali, l'umanità da quando esiste si dà da fare ogni giorno per procurarseli. Ma limitarsi a questi sarebbe davvero poco umano". Ecco l'ambizione: non lasciare che la miseria, la soddisfazione di bisogni primari, sì consumi tutta la vita. Ed è così che, _dalontano, arrivano il pistolero e la sua storia, a vendicare la miseria con lo spettacolo di una epica fantasia. La grandezza di Acheng è in quel suo riuscire, nel breve giro di sessanta pagine, a domare queste due forze div.ergenti: la fame e la fantasia, la Cina fatta a pezi.i dalla rivoluzione culturale e il western. La sua scrittura tramanda la cifra della miseria e insieme vola oltre, in una promessa di evasione che qualcosa già mantiene. Piccolo miracolo che merita l'ammirazione ma anche una necessaria chiosa: Acheng, per noi, è un modello inservibile. I libri di Acheng vengono da lontano. La loro bellezza non ci appartiene. L'Occidente ricco non sa cos'è la fame: quanto meno non l'Occidente ricco che scrive. Si può anche mimare una scrittura "bianca" all 'Acheng: ma qui e ora essa non potrebbe che essere unò stilema imposto dall'esterno e, in definitiva, un'impostura ideologica. Una falsa innocenza. Il luogo comune - vero - secondo cui la letteratura è un lusso, riletto alla luce di una civiltà per cui il lusso è normalità, andrebbe interpretato alla lettera: non l'indigenza, ma il lusso dovrebbe marchiare la scrittura come sigillo della sua fedeltà al reale. Vagheggiare una scrittura che recupera la sacralità di un puro nominare è un'ambizione truffaldina in un mondo in cui l'esistente, per sovrabbondanza di intensità e di contenuti, sfascia i nomi uno a uno. Dovrebbe essere piuttosto proprio quell'esplosione a trovarsi cristallizzata nella scrittura. Gli educati compitini di tanta letteratura contemporanea continuano a perpetrare un'arte del narrare in cui l'ipocrisia del beli~ stile anestetizza il reale: quando invece qualsiasi galateo della scnttura dovrebbe disfarsi di fronte all'evidenza di un sempre più incontrollabile sfasciarsi del raccontabile. Lo shock della fame contrae la scrittura di Acheng fino al grado zero della spettacolarità: con un analogo movimento, dall'altra parte del mondo, lo shock della sovrabbondanz~ dovrebbe liberare la scrittura verso una spettacolarità esasperata. Ogm dove la scrittura non si dimostra capace di un simile giro di vite, declina un'indigenza che, in assenza di miseria vera, pecca contro ogni vera miseria. 29

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