Linea d'ombra - anno VIII - n. 54 - novembre 1990

CONFRONTI Miseria e narrazione Osservazioni su Acheng Alessandro Baricco Ciò che innanzituttQ colpisce, nel leggere Acheng, è l'indigenza della strnttura. Che vuol dire: un linguaggio elementare e una struttura narrativa ai limiti dell'infantile. Nella strettoia espressiva dettata da una simile pauperizzazione del materiale sta con ogni probabilità la radice del fascino di Acheng. Quell' indigem.a allestisce una drammaturgia che, agli occhi del lettore occidentale, assume il sapore di una verginità perduta. Di un'innocenza impossibile. La costruzione della frase, in Acheng, ha qualcosa di primitivo. Per lo più breve, secca, poverissima di aggettivi e avverbi. Soprattutto: è una frase per lo più bipartita, costruita sulla sequenza quasi didascalica di un antecédente e un conseguente. Nel primo è fissata una causalità o una individuazione nel tempo: nella seconda è registrato un fatto. Questo schema, reiterato con un inesorabilità protocollare, costruisce sequenze dalla lapidarietà quasi arcaica. Prendiamo un esempio da Il re degli scacchi, nella traduzione di Maria Rita Masci (Theoria): Quando non piantavamo alberi/coltivavamo un po' di grano. Le vie di comunicazione erano difficilmente praticabili e i mezzi di trasporto insufficienti/per cui spesso non riuscivamo a comprare il ·kerosene per le lampade. · La sera/seni.a luce e senza fuoco ci riunivamo tutti e passavamo il tempo a parlare di qualunque cosa. Inoltre, dato éhe spesso si "tagliavano le code del capitalismo",/la vita era piuttosto dur-l. Spesso la nostra razione mensile di olio non superava i 25 grammi;/ per questo, quando suonava la campanella del pranzo, tutti si precipitavano a mangiare. Un simile ritmo da formula giuridica costruisce, per fare un altro esempio, un significativo ritratto del protagonista: Visto com 'era interessato al cibo/lo oss~rvai mentre viaggiava. Quando il personale del treno portò il pranzo nel vagone dove viaggiavamo/la sua mente non sembrò più concentrata sugli scacchi e diventò leggermente ansioso. Sentendo il rumore delle gavette d'alluminio in cui veniva servito il cibo/ chiuse gli occhi e serrò le labbra, come se avesse la nausea. Quando ebbe il suo pranzo/cominciò a mangiarlo velocemente, il Pomo d'Adamo gli si contraeva regolarmente e i muscoli facciali erano tesi. Spesso si fermava di scatto/perraccogliere col dito i chicchi di riso e il grasso sparsi attorno alle labbra e sul mento, per poi sospingerli in bocca. Ogni volta che un singolo chicco cadeva sui suoi abiti/lo raccoglieva e se lo portava alla bocca col dito e se il chicco, poco stabile sul dito, cadeva per terra/smetteva subito di muovere i piedi e si chinava a raccoglierlo. Se incrociava il mio sguardo/rallentava i movimenti. Quando ebbe finito di mangiare/succhiò le bacchette e riempì la gavetta di acqua calda. Dopodiché/bevve prima l'olio che galleggiava in superficie e poi il resto, a piccoli sorsi, con l'aria di qualcuno che è ormai in salvo nel suo rifugio. Un ritratto del genere ha, senza parere, il ritmo di una litania. Il continuo inanellarsi di antecedenti e conseguenti e la lunghezza pres28 soché costante delle frasi regalano, al contempo, il senso di un rito e un sapore di arcaico: quasi non ci si accorge dell'ottuso procedere della descrizione: a costruirla sono dieci proposizioni di cui otto sono introdotte da una determinazione temporale (quando, quando, spesso, ogni volta, quando, dopodiché e due "se" che potrebbero tranquillamente. essere sostituiti da due ennesimi "quando"). Le rimanenti due si aprono con due gerundi che instaurano un nesso di causalità, e dunque, ancora una volta, una sequenza di domanda e risposta. Una prosa del genere ha qualcosa di primitivo non solo perché reitera un unico schema: ma anche perché reitera uno schema in qualche modo primordiale. La realtà è restituita scomposta e "semplificata" in mozziconi in sé autonomi e autofondanti: quasi delle monadi che suonano come precetti. La frase diventa quasi una forma trascendentale di appercezione della realtà: un a priori che non lascia margine per l'indeterminatezza, il dubbio, il mistero. In questo modo, la prosa di Acheng si allontana impercettibilmente dal vero e proprio raccontare e si avvicina, piuttosto, a un più arcaico e sacrale nominare. In questo scarto si consuma una sorta di processo chimico che "asciugando" la scrittura espelle da essa un suo elemento fondamentale: il suo tratto più squisitamente letterario. Nella scrittura che nomina invece che raccontare sparisce la ruffianeria della narrazione letteraria, decadono le malìe di una drammaturgia che con astuzia corteggia l'emozione del lettore. TInarratore regredisce a testimone: e nel contempo assurge a demiurgo che impartisce nomi aila realtà. È qui che si incrociano le forze che tengono in piedi il fascino di Acheng: l'indigenza della· scrittura, il carisma che le viene da quel demiurgico nominare, e l'impressione di "innocenza", di "purezza" che è generata dal suo rifiuto delle artificiali astu1.ie letterarie. Una formula che non può lasciare indifferente il lettore occidentale: e che pure sarebbe poca cosa se non contenesse, anche, qualcosa che la traduce in curioso paradosso: la capacità di ospitare in se stessa il proprio contrario. Come è stato osservato, Il re degli scacchi. è, sotto sotto, nient'altro che un western. Nel senso: usa una ricetta drammaturgico-spettacolare collaudata mille volte dal genere western: il giovane pistolero solitario, un vecchio maestro che gli svela i segreti del mestiere, il cammino di formazione che lo porta all'appuntamento con il grandioso duello finale. Si sostituisca alla colt la scacchiera e si avrà il plot del libro di Acheng. Da Omero a fohn Huston, quella vicenda rappresenta uno dei percorsi preferiti dall'impostura narrativa: infallibile schema di seduzione per imbonire i pubblici più diversi. Apoteosi simbolica e ideologica di una realtà trasfigurata. Infallibile favola per illusori riscatti collettivi. Per dirla sinteticamente: il libro di Acheng adotta uno dei più logori, retorici ed efficaci luoghi comuni della tecnica narrativa. Non trascura neppure di curare alcuni utili accessori: è vero che manca una storia d'amore (strano buco nero) ma non manca il tema della madre, cucinato senza pudore, nel più classico dei modi: prima si oppone alla passione del figlio, poi, prima di morire, gli regala degli scacchi fatti con le sue mani intagliandò i manici di vecchi spazzolini da denti. Ciliegina: la madre è analfabeta, e sugli scacchi non ha inciso gli ideogrammi di prammatica: "Temevo di sbagliare a scriverli. _Scrivili tu. Volevo mostrarti che sono fiera che tu sia bravo a giocare a scacchi". Non c'è da stupirsi se poi, alla fine, il protagonista, dopo il duello decisivo, stravolto e in certo modo vincitore, dia vita a una piccola scenetta che sarebbe piaciuta molto a Mascagni: "Mamma", singhion.ò, "tuo figlio oggi ... mamma ...". •

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