IL CONTESTO la base produttiva, per creare nuovi posti di lavoro sicuro. Per un paese come il Kenya, mantenere alto il tasso di disoccupazione è vitale, perché è fun7ionale alla strategia di chi pensa di fame un polo di attrazione per i capitali occidentali offrendo mano d'opera a bassissimo costo." E così lo slum si normalizza: acqua, luce, fognature; giornali, radio e mangianastri; coca cola --.:dovunque, sulla facciata di ogni negozietto, appeso all 'ondulina c'è un cartello che pubblicizza bibite, birra, sigarette -. Non c'è niente di precario, nella presenza dello slum. Non di uno scherzo della storia si tratta, ma di qualcosa di radicato, stabile, definitivo: lo slum è saldamente proiettato verso il futuro. Anche perché è molto difficile uscirne, risalire la corrente e trovare la maniera di guadagnarsi un salario più alto, quello che poi consente di andare a vivere in una periferia moderna, in un appartamento. Per chi viene dalle campagne, dalle piccole cittadine di tutto il Kenya, la città è un gigantesco imbuto che attira nello slum. Certo: a Nairobi almeno c'è un lavoro. C'è una vita che è più vivace e interessante di quella del villaggio, tutti i giorni a portare gli animali al pascolo o a zappare la terra. La miseria del villaggio, la sua arretratezza, è una miseria che in qualche modo appartiene al passato, un modo di vita che gli antropologi europei potevano studiare immaginandosi di guardare nel pas_satodella razza umana: nel proprio passato. La miseria dello slum è diversa: e si ha l'impressione che possa davvero appartenere al nostro futuro, al futuro delle nostre città bianche. E del resto, i parallelismi con le periferie delle metropoli americane o europee, con i vari Bronx del nord del mondo, sono tanti: le droghe a basso costo (colla da falegname, etere da farmacia), le bande giovanili che tracciano territori. E anche le mille chiese, sì: perché la Korogosho Higways è un susseguirsi di piccole croci di legno su piccole chiese di fango, di figure vestite di bianco con bibbie e corani in mano, bandiere e predicatori, e gruppi di gente che prega in cerchio. Padre Zanotelli è l'unico a non indossare un abito sacerdotale: jeans e giubbotto di tela; ma la sua croce di legno è la più grande di tutte. "Certo," dice, "molti riescono a uscire dallo slum. Ma devi sempre pensare che per ogni ragazzo che trova una via d'uscita, che ce la fa, nello slum resta una donna incinta, magari con qualche altro bambino da mantenere. Ecco perché la popolazione di Korogosho _aumenta ogni 20 4/90 In questo numero, fra gli altri articoli: Miriam Mafai: Le vedove di Lenin e la deriva femminista Paolo Flores d'Arcais: Come combattere la partitocrazia Ernst Fraenkel: Riforma della costituzione e socialdemocrazia Pino ATlacchi e Roger Lewis: Droga e criminalità a Bologna Vezio De Lucia: La strage urbanistica Gianni Vattimo: Post-moderno, tecnologia, ontologia anno. E le vere cittadine dello slum sono le donne: la maggior parte del mio lavoro consiste proprio nel trovare la maniera di assisterle, o di convincerle a organizzarsi insieme, magari di mettere su degli asili nido." Ma cosa fa Alessandro Zanotelli, da solo, a Korogosho? "Sì, sono solo. Le gerarchie della chiesa non vedono di buon occhio uno come me. Perché faccio confusione, dicono loro: perché rompo le scatole, dico io. Perché denuncio le speculazioni sulla pelle di questa gente. E perché la mia sola presenza quaggiù fa fare una pessima figura a tutti quei missionari che vivono comodi in qualche villetta nei sobborghi residenziali di Nairobi, missionari che nello slum ci vanno ogni tanto, incapaci di costruire un rapporto vero con la gente. . Io resto qui e cerco di farmi accettare dalla gente come uno di loro. E ci sto riuscendo, a poco a poco. Vedi, qua già c'è un' asilo autogestito da alcune ragazze madri. E una scuola costruita dagli studenti. Abbiamo anche costituito un collettivo autodifesa: il quartiere è terrorizzato da bande di ragazzi che taglieggianq i commercianti, che rubano. È pericoloso, ma qualche cosa si può fare." E aggiunge: "È sbagliato venire quaggiù e voler decidere a priori il proprio intervento. Bisogna improvvisare, e lasciare che sia la gente a organizzarsi da sola." Vista dal!' esterno la missione, con la chiesa, gli uffici, la stanza dove vive Zanotelli, colpisce perché stacca col paesaggio intorno. È più chiara e definita del resto del quartiere. C'è anche più spazio, e non so come Zanotell°i sia riuscito a guadagnarselo. Ora sulla porta dell'ufficio si affaccia un gruppo di ragazze, chiedonounareteda pallavolo: ecco a cosa serve il cortile. Zanotelli consegna la rete, le aiuta a montarla, segue le prime battute della partita e redarguisce un ragazzino che sembra voler fare il prepotente: "Questa è una cosa importantissima: insegnare loro a stare insieme, a collaborare, a non usare violenza nei loro rapporti reciproci. È il primo passo, quello che permette loro di associarsi, di formare una comunità. "E poi: "Quando sono arrivato qui, c'erano già alcune comunità di base. Ma la gente era sfiduciata. E avevano davvero paura delle bande, della violenza che c'è in giro. Sai, qualunque iniziativa quaggiù necessita di uno spazio, per essere portata avanti. E qui lo spazio è vitaie, va conquistato". Mi chiedo come sarà capace di difendere il'suo campo di pallavolo. E infatti aggiunge: "A me è già capitato più volte: mi hanno fermato per strada, un gruppo di una decina di ragazzi, anche giovanissimi. Mi hanno minacciato, mi hanno detto che devo andarmene da Korogosho." Poi Zanotelli cambia discorso. Comincia a parlarmi dei fondi della cooperazione italiana, della mafia italiana che gira intorno a Malindi o al Casinò di Nairobi. Di come il Kenya sia ormai una delle più importanti stazioni di transito per il commercio di oppiacei dall'Indocina. Vedo che ha una gran voglia di parlar male degli italiani di qui, dei socialisti come Francesco Forte. E nel far questo anche il suo sguardo si alza al di sopra delle baracche di Korogosho, si perde. Ho perfino l'impressione che mentre noi due parliamo di politica 'alta' non ci ricordiamo più di essere in questo quartiere, su queste sedie di legno. Mi accorgo anche che probabilmente io faccio lo stesso effetto a lui quando gli chiedo un'opinione sulle manifestazioni a favore del multipartitismo qui in Kenya, sugli arresti, sugli omicidi politici. Mi risponde: "Sono tutte cose che non riguardano Korogosho. Cose che succedono là." E indica il centro della città. Usciamo nel cortile. Zanotelli mi porta sul retro della missione. Da qui si vedono le ultime baracche che scendono verso il fiumiciattolo, e sull'altro lato l'immensa collina di coriandoli bianchi: la discarica più grande di Nairobi. Una striscia che, mi dice lui, è lunga forse otto chilometri, forse dieci. Sopra questa enorme collina artificiale, è tutto un brulichio di figure scure: gente che vive raccogliendo rifiuti. Vengono a Korogosho a rivenderli, a volte. E la gente del quartiere di loro ha paura, perché puzzano, sono ubriachi. "E neanche troppo normali," dice padre Zanotelli sorridendo e toccandosi la tempia con un dito. "Ma ho un progetto," mi racconta, "voglio convincerli a formare una cooperativa di raccoglitori. Per commercializzare la roba che raccolgono." Quando ci salutiamo, gli dico che mi piacerebbe tornare a trovarlo, ·magari visitare con lui Korogosho, capirla un po' di più. Mi risponde: "Preferisco che non girino troppe facce bianche, qui intorno." Deve farsi accettare dalla gente, non può permettersi di portàre molti aJTiicin visita. "Sai, ogni tanto sembra che veniate qua da turisti. A godervi lo spettacolo della miseria."
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