Linea d'ombra - anno VIII - n. 53 - ottobre 1990

MARTIN SCORSESE: QUEIBRAVRI AGAZZI Scorsese è un regista irritante, non simpatico, spesso anche contorto nel suo fondo italo-meridionale-cattolico trasferito nella'gran volgarità dei li italian-americans affermatisi via mafia nel nuovo continente. Racconta quel mon&] come nessun altro è mai riuscito a fare -nemmeno un altro italian-american più furbo e levigato e adattato di lui nello USAKapital dello spettacolo, il çoppola del Padrino. Lo conosce benissimo, lo racconta benissimo. Anche Q~i bravi ragazzi ha qualcosa da aggiungere alla sua galleria di mostruosità quotidiane che ci somigliano. Oggi -che i registi italiani ci sembrano tutti o dei puffi o dei presuntuosi imbecilli o dei ' rimbambiti integrati (c'è qualche eccezione, una al centro-centro, qualcuna alla periferia lontano da Roina per davvero e scartata dalla gran volgilrità dei media), l'ostinazione con la quale, senza saperlo, Scorsese racconta lanqstra parte meridionale di italiani raccontando i suoi odiati-amati italian-americans, è più che lodevole, è eccezionale. Chiaro che crei un certo sconcerto, dalle parti di Venezia, nella melma dello istupidimento critico dei .servitorelli di Manca, di Berlusconi, di Andreotti il supremo, di cui anche qui, in Queibraviragazzi, troviamo un avatar rappresentativo, un personaggio che ce lo ricorda. Scorsese è antipatico, diciamolo, perché non si libera della sua simpatia-antipatia per il proprio mondo, e ce lo racconta troppo bene. Quei personaggi di bravi ragazzi noi li riconosciamo, li abbiamo visti e ne vediamo tanti così, tra Romà Napoli Palermo, e il loro modo di agire e ragionare, la loro volgarità non sono affatto accentuati, sono proprio così. Il triviairealismo di Scorsese, il turpe-realismo che egli pratica, corrìsponde, non esagera. E lamacelle• ria è macelleria perché così è; e fa schifo, nqn Joe Pesci,·RayLiottae Robert De Niro in Quei bravi ragazzi. · 90 CINEMA è al gus.to intellettua)e wasp-ghezzo-fighetto dei cultori dell'horror.Alla base lontana c'è una scuola che è quella del realismo americano, della VitadiStudsLonigan di Farrell più che-di certi romanzacci di Upton Sinclair o degli antenati Dreiser e Norris. Oggi è di buon gusto considerare tutto questo (naturalismo e verismo e realismo) molto superato. Ma se Scorsese non inventa modi fll.\OVdii narrare una realtà che resta nella sostanza vecchia e la stessa, chi altri affronta questa realtà e dimostra di fado con occhi nuovi, senza mistificarla? Ma ecco che egli deve anche allontanar- . si, dare un giudizio, e cerca qui più che mai un distacco narrativo -nelle vecchie ricette delle voci fuori-campo, della ricostruzione a poste- · · riori sulla carriera di un mascalzone, delle didascalie, delle musichette d'epoca volgari quanto gli.arredamenti, ma suscitanti nei protagonisti sentimenti di sublime, poiché ognuno ha il suo kitsch e piange e si commuove su di sé tramite un qualcosa che lo sollecita e che gli somiglia. E Abbado o la Fallaci oMario Mero la sono equivalenti, sotto questo riguardo. Cerca un distacco e gli riescè molto difficile trovarlo. Perché da quel mondo sa di provenire, perché quella sottocultura fa parte anche delle sue · viscere. Cioè delle nostre, anche di chi fa finta, come certi noti intellettuali che si nobilitano a ·poco costo nell'orrenda Vienna o nell'orrenda Capalbio, che tutto questo non lo riguarda, ché lui è europeo, o pensa che tutto questo fa parte al massimo del suo passato, del passato dell'uomo occidentale. Certo, il Nord è diverso dal Sud e viceversa, in molte cose. Ma siamo così sicuri di non appartenere alla stessa matrice (cattolica) e, per esempio, di non tollerare facendo finta che non ci riguardino le stesse pratiche mafiose all'interno di pressoché tutta la nostra vita nazionale? Scorsese è più dilacerato di quel che non voglia sembrare. Ma descrive il mondo come è, non si mente, non mente (per ora). I suoi personaggi sono ripugnanti. Ma avete mai conosciuto un camorrista, leggete le cronache sui giornali, seguite i fatti della nostra politica, scrutate attorno a voi, scavate nelle vostre viscere, vi guardate mai allo specchio? (Goffredo Fofi) CLAIRE DENIS: S'ENFOUTLAMORT · Il film si apre su una scena da thriller: un'arteria autostradale nella luce lividadell' alba; un'auto con a bordo due uomini di colore . ferma sul lato della carreggiata, a luci spente; un tir che accosta e fa scendere tre uomini, bianchi, che marciano aggressivi sull'auto dei neri. Potrebbe essere un regolamento di conti o un'imboscata e invece si tratta solo di una consegna di merci e relativo pagamento. Dal baule della auto escono, impacchettati in eleganti cartoni con buchi per l'aerazione, alcuni galli da combattimento che andranno a vivaciz- .zare le notti clandestine di piccoli scommettitori locali in cerca di emozioni e di quasi innocui scarichi di violenza. Il regime del film è comunque inaugurato: i fronti sono due, quello dei'neri (emigrati dalle Antille, forse clandesti- • ni) e quello dei bianchi (piccola borghesia benestante e bottegaia). Tra loro, s.traordinaria metafora, quella merce impropria che è il gallo da combattimento, animale esotico e maschio (come i due protagonosti Jocelyn e Dah), addestrato e destinato a una lotta che prevede due soli esiti: morire o uccidere .. "S'en fout la mort", al diavolo la morte, è - programmaticamente - il nome dell'animale più amato dagli antillani. Lo scenario è quello squallido e affluente delle periferie parigine. Il padroncino Ardennes (un Jean..Claude Brialy laidamente invecchiato e piagnucoloso) amministra una solida impresa a gestione familiare: ristorante, night e bisca per le scommesse sui galli. Accanto a lui lavorano la moglie Toni (una Solveig Dommartin giovane e bella quanto basta per fare da esca alle incompatibilità e alle gelosie tra neri e bianchi) e Miche!, figlio di Ardennes e_amante di Toni. Ardennes, in un passato che ha assunto i colori mitici del sogno, ha vissuto in Martinica. Gliene sono rimasti addosso la passione e il rimpianto, ma nella sazia e confortevole situazione in cui ora vive i sentimenti forti si sono stemperati e banalizzati in sentimentalismo. Nell'opulenta e involgarita Francia contemporanea le sedimentazioni del pass.ato coloniale sono soltanto fantasmi disattivati, incapaci di spiegare tanto la storia quanto il presente. Bolsamente fantasticando e intenerendosi sui ricordi legati alle Antille, Ardennes assume .(ma meglio sarebbe dire prende come schiavi) Jocelyn (proiezione di una mancata paternità "esotica"?) e Dah. Rinchiusi con i galli in uno scantinato dove non passano né aria né luce, gli antillani preparano/si preparano al combattimento finale e all'inevitabile sacrificio. Con saggia intelligenza, grazie forse anche auna conoscenza diretta del problema (la Denis 'è cresciuta in Africa, dove ha passato vent'anni), la regist,a (che ha al suo attivo un altro film riconosciuto, Chocolat, e varie collaborazioni, tra cui quella con Wim Wenders, come assi~ stente alla regia) ha scelto di inquadrare la questione razziale attraverso un caso che si sottrae ali' esemplarità, rinunciando a priori a fare quelle inutili liste da cahier des doléances che tanto piacciono ai neofiti nostrani con

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