MIKE OCKRENT: BAttANDONELBUIO Come è noto, a Venezia quest'anno ha vinto il teatro. Leone d'oro aTom Stoppard per un'opera prima cinematografica, RosencranJz arulGuildenstern Are Dead, che altro non è se non l'intelligente trascrizione della sua famosa e omonima opera per il teatro. Un'operazione metateatrale che, nella sostanza, ingaggia il linguaggio cinematografico come puro strumento di documentazione e~ome moltiplicatore di fruizione spettatoriale. A smentire il verdetto veneziano ci penserà naturalmente il pubblico dei grandi schermi internazionali e, sul fronte italiano, ci penserà purtroppo anche il doppiaggio, sfidato a rincorrere le squisite spericolatezze linguistiche dell'autore britannico e a rinchiuderle in improbabili equivalenti, nostrani. Nel calderone veneziano, anche s~ fuori concorso emessa forse un po' in ombra dall' ingombrante presenza del lavoro di Stoppard, c'era invece un'altra opera prima legata a filo doppio al teatro inglese: Dancin' thruthe Dark, · riscrittura filmica curata dall'autore Willy Russell (e diretta da Mike Ockrent, regista tra l'altro del musical best-seller Me arulMy Gir[) dell'omonimo lavoro teatrale e dell' adattamento tele~isivo Stags aru1 Hens. Un film da tenere d'occhio e per più ragioni. Intanto come esempio compiuto di come sia possibile passare dal palcoscenico alla pellicola senza incorrere nelle goffaggini di una traduzione troppo letterale, prudente o scolastica, ma neppure nelle espansioni selvagge, improprie e volutamente accattivanti di quegli adattamenti preoccupati di aggiungere azione, personaggi, intreccio in funzione di una supposta maggior dabbenaggine dello spettatore cinematografico tipo rispetto al colto frequentatore di sale teatrali. E poi perché Dancin' thru the Dark, inserendosi a buon diritto tra i migliori titoli della giovane cinematografia inglese, è riuscito a coniugare senza sguaiataggine e senza moralismi gli umori lievi della commedia sentimentale e quelli graffianti, rabbiosi, qua è là corroUno scena di Bollandoné/ buio. CINEMA sivi, di una satira di costume capace tanto della freddezza del docwnentario quanto della passionalità che alla registrazione obiettiva preferisce il commento e il giudizio. Vera protagonista del fihn, pur dietro un' esile e esilarante storiellina sentimentale a lieto fine, è la Liverpool del dopo disastro thatcheriano. Potremmo essere a Beirut, ma anche nel Bronx: quartieri sventrati, strade da apocalisse postatomica, bande di ragazzini a rincorrere palloni spaesati in squallidi lotti dove il cartello "vendesi" parla di preistoria tanto quanto le canzoni dei Beatles e i miti a loro collegati. Simmetricamente, alle miserie en plein air di una città che è stata.tagliata fuori dalla geografia dello sviluppo occidentale corrispondono le miserie piccole piccole di chi ci è rimasto a vivere e, forse per farcela a tirare avanti, si è irrigidito nella convinzione che il meglio sia comunque lì, che fuori non ci sia niente di buono, che non valga la pena di muoversi. Arroganza cattiva e insieme patetica dell 'impotenza e della mancanza di immaginazione, da cui - come ben racconta il film - possono scaturire due atteggiamenti altrettanto pericolosi: l'intolleranza verso ciò che, venendo da fuori, si qualifica come diverso e impone la minacciosa necessità del confronto e una radicale incapacità di desiderare il cambiamento o addirittura di immaginarselo, se non attraverso lo schermo deformante della paura e dell'inadeguatezza. (Marià Nadotti) TOM STOPPARD: ROSENCRANTZ EGUILDENSTERSNONO MORTI RosencranJz and Guildenstern Are Dead, premiato con il Leone d'oro da Gore Vidal e da una giuria che non ha saputo opporglisi, ha innescato prevedibili commenti de1tipo "bello e intelligente" oppure"cinemae teatro", luoghi ultra-comuni di una critica che sembra aver perso definitivamente i metri per giudicare cosa è diventato il cinema. Certo che il film è "intelligente": Tom Stoppard è un vero funambolo della parola e molta p~te del suo successo teatrale l'ha proprio costruito sull'abilità verbale, sull'equilibrismo tra parola e gesto. Basterebbe la singolare partita a botta e risposta, dove da una parte all'altra della rete Rosencrantz e Guildenstem si lanciano non palline ma domande, per rendersi conto della indubbia genialità della sua invenzione linguistica. Oppure la rutilante presentazione in forma di compendio dell'universo teatrale sciorinata dalla compagnia di giro davanti agli occhi un po' intontiti dei due protagonisti. È tutta "gran~ de intelligenza", proprio come in un quadro di Escher dove il primo sguardo sembra perdersi dentro i piani che si intersecano di un mondo senza centri e senza limiti. Ma dopo un po', dopo aver scoperto (ed essersi abituati) ai trucchi e alle regole di questa dimostrazione d'intelligenza, il divertimento diventa troppo ripetitivo e la meraviglia lascia il campo alla noia. Richord Dreyluss (il capocomico) nel film di Stoppard. Per il film 0 di Stopparci, a vincerla è invece l'indifferenza. E proprio la mancanza di qualsiasi coinvolgimento di fronte alla storia raccontata e al modo in cui è raccontata svelano fino in fondo le contraddirioni di quésta intrusione nel cinema. Il piacere di raccontare una storia che altri non hanno voluto raccontare (quella appunto di Rosencrantz e Guildenstem, personaggi minorissimi dell'Amleto, la cui esistenza, nel dramma shakespeariano, è sacrificata ad altri interessi), di dar vita a quello che il mito ha invece messo a morte; la scommessa di costruire tutta una ragnatela linguistica apartire dalla tragedia più parlata della storia del teatro, l'Amleto appunto, permettendosi lo sberleffo di non citare mai la sua frase più famosa, quell'essere o non essere che è diventato proverbio, titolo, programma filosofico, tutto e il contrario di tutto; la voglia di reagire allo stato del teatro contemporaneo scr.ivendo (erano gli anni Sessanta) un dramma che fosse la negazione delle qualità allora considerate vincenti e incarnate da Osborne e C., sono tutte scelte che hanno senso all'interno della storia del teatro e che quello stesso significato danno anche al suo autore. Ma rifare oggi al cinema quel testo è un'operazione di cui francamente sfugge il senso e di cui vediamo soprattutto l'influenza, subita, dell 'english quality (quella che ha fatto la fortuna dei suoi direttori della fotografia, soprattutto nella pubblicità) e il piacere ·tutto cerebrale di mettere in mo~tra la propria bravura. Altra cosa è il cinema di parola (Mankiewicz insegna) e altra cosa è un film tratto da un testo teatrale (basta vedere il Cyrario di Rappeneau, per accorgersi.di quanto più entusiasmo, di quanta partecipazione sprizza dallo spadacc cino guascone: in una parola di quanta più capacità di amplificare il potere dell'immaginario, funzione tutta cinematografica e per niente teatrale, e forse per questo completamente sconosciuta a Stoppard). Restano gli attori, tutti molto bravi, ma ahinoi non bastano a fare un film, raggelati come sono in una dimensione che forse funzionerà in tivù nei pomeriggi di prosa. In fondo l'ha comprato Berlusconi, no?. (Paolo Mereghetti) 89
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