JANE CAMPION: UNANGELOALLAMIA TAVOLA I soliti critici cinématografici italiani non potranno dire che Jane Campion con il suo An Angel at My Table ha tradito l'opera della scrittrice neozelandese Janet Frame, protagonista del film, solo perché non la conoscono. Ma almeno a Venezia, la tentazione è stata forte. Mentre dalla Sorbetteria di Ranieri (Raiduc) ogni sera si evocavano incredibili dibattiti sul "cinema letterario" o sul primato della sceneggiatura rispetto alla regia e viceversa - questi sì, temi ripescati dal triangolo nero della critica anni Cinquanta-, la Campion rappresentava un autentico "fenomeno letterario" solo con l'uso del linguaggio cinematografico (e cioè alternando punti di vista "oggettivi" e "soggettivi", con la sorprendente anomalia delle inquadrature e degli stacchi di montaggio, con le assonanze espressive e la scansione dei ritmi narrativi, ora distesi ora significativamente rabbiosi). . Janet Frame rappresenta uno di quei tipici casi letterari in cui la leggenda rischia di sovrapporsi alle opere; di certo, però, è un'autrice che con là letteratura (vissuta in maniera esasperata e totalizzante) è riuscita a passare vittoriosa, mà non indenne, attraverso una serie di terribili esperienze personali e familiari. Ma a Jane Campion non interessa tanto raccontare, ed enfatizzare, la storia umana e artistica, pur estrema; della Frame, e non contraddice la sua 88 CINEMA I FILM DI VENEZIA dichiarata poetica di "cogliere e porre in risalto l'insignificante, ilbanale, l'ordinario della vita". Dopo una serie di cortometraggi (Peel, Passionless Moments, A Girl's Own Story, After Hours, Two Friends) e un'interessante opera prima (Sweetie), con An Angel at My Table Janet Campion coglie soprattutto le rotture violente che si determinano fra la,maggioranza di chi si riconosce e autolegittima in una_presunta normalità di comportamenti e valori e la minoranza infelice di chi non ci si. ritrova, evidenziai punti di crisi fra "chi sa" (di volta in volta, la maestra, il professore dell'Università, lo psichiatra, lo scrittore affermato; l'editore) e chi non riesce a entrare in sintonia con l'esercizio univoco, certo sche1natico e violento, di quel sapere. Di qui la messa a frutto di uno stile e di un'attenzione linguistica che la Campion porta quasi alla perfezione, nel contrapporre la normalità alla devianza, nel proporre materiali narrativi e gesti emotivi sempre banali e riconoscibili, fotografati però con la luce e lo sconcerto di una Diane Arbus o di una Cindy Sherman. J ane Campion rappresenta la "follia ascetica" della protagonista "tutta dal di dentro" e sul filo della memoria o della rielaborazione letteraria/nevrotica, cioè senza rendere espliciti i • tradizionali nessi causa/effetto _elimitandosi a documentare quasi fenonrenologicamente le inaudite sofferenze di chi non riesce a trovare mai un equilibrio, di chi non riesce a recuperare un 'armonia che sembra perduta per sempre (si pensi ai "flash" dcli' infanzia, al mare verdissimo intravisto tra le gan1beprotese sul precipizio, ali' amore segreto per unprofessore universitario che "per il suo bene" fa ricoveraré in manicomio Janet, o il lunghissimo, insostenibile silenzio della stessaJanet, incapace di spiccicare parola, davanti all'ispettore scolastico). Articolato in tre parti, il film sembra raccontare didascalicamente la vita della protagonista, dall'infanzia alla maturità, dalla Nuova Zelanda degli anni della depressione ai viaggi in Europa, dall'inferno del manicomio conosciuto per una diagnosi sbagliata di schizofrenia (con 200 elettroshock subiti in otto anni) ai primi successi letterari, ai riconoscimenti accademici, alla fama; in realtà vengono raccontati solo i punti che servono a spiegare le "rotture", le "disarmonie esistenziali" da cui poi scaturisce l'atto creativo, la forza vitale di autoimporsi e salvarsi. La "follia" come tale non viene descritta ma fatta rivivere attraverso le reazioni altrui, le piccole (e inspiegabili perché viste dalla parte della protagonista) violenze quotidiane, i tanti gesti di disattenzione e disamore ("Non credevo che esistessero tipi così. È troppo nervosa", commenta un amico inglese vedendola allontanarsi). Ma resta sempre l'atto dello scrivere. "Shh-shh-shh, l'erba, il vento, il mare dicono shh-shh-shh". Nell'inquadratura finale del film, la protagonista, apparentemente rasserenata, e invece coerente con le scelte di vita che l'hanno portata fin li, smette di scrivere guardando ossessivamente dentro se stessa e per la prima volta comincia a descrivere - con la meravigli a e il pudore di un bambino - la realtà che le sta intorno. È tutt'altro che una" guarigione" e neppure un rientro nei ranghi. Intangibile e vulnerabile insieme, Janet ha lasciato Londra e il suo appartamento dove doveva scrivere il "best-seller", e ha fatto ritorno nella casa paterna. E la "scrittrice pazza" che ha viaggiato in tutto il mondo perdendosi sempre qualcosa (i bagagli in S'pagna, la prenotazione della camera a Parigi ecc.) si ~ente finalmente a proprio agio solo quando si mette nelle vecchie scarpe sformate del padre. Tutt'altro che guarita Janet continua a scrivere come sempre, e sceglie di lavorare in una roulotte parcheggiata in giardino, mentre fuori il nipote balla un twist e in casa i parenti chiamano per la cena. A cambiare radicalmente è invece.il punto di vista del film. Dalla rappresentazione cinematografica di un'anomalia e di un malessere, c'è ora la semplice descrizione di una scrittrice al lavoro. È un nuovo itinerario che il film accenna appcria. I rumori indistinti ridiventano suoni, e dopo tante parole, frasi, Versi, è il momento per Janet di ricominciare daccapo, dalle lettere dell'alfabeto, dalle voci silenziose emesse dalle cose che più conosce (l'erba, il vento, il mare ...). La letteratura riprende il sopravvento, e la Campion giustamente chiude il suo film. (Piero Spila)
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==