IL CONTESTO Un golfo di retorica Non è facile affrontare la crisi internazionale che si è aperta conl'invasioneel'annessioneirakena del Kuwait senza venire coinvolti nella banalizzazione retorica Q demagogica offerta, in Italia soprattutto, dalle forze politicheedallàstampadiogni tendenza. La difficoltà risiede tanto nel collocare la crisi presente in uno scenario internazionale di ardua comprensione ove si voglia ragionare in termini di medio e lungoperiodo, quanto nell 'incapacità di dare risposte di carattere etico e politico a interrogativi che nascono sul terreno del diritto internazionale, dell'uso e della risposta alla violenza, dei limiti e della possibilità di ricorrere alle armi. . Sul primo problema, quello dei caratteri nuovi della realtà internazionale in quest'ultimo decennio del secolo, bisognerà continuare a riflettere. Per adesso basterà sottolineare la miopia dei · più quotati commentatori che irridono alle recenti analisi sulla decadenza della potenza americana proponendo come vincente l'immagine di un unico superpotere che, per fortuna nostra e del mondo intero, è ormai· quello democraticoeprot.ettivodegliStati Uniti.Non si può tacere, tuttavia, l'analisi identica ma di segno opposto che attribuisce all 'Urss di Gorbaciov la colpa di aver lasciato il campo all'imperialismo americano, la cui potenza arrogante e incontenibile detterebbe ormai legge sulla scena internazionale. La possibilità di un nuovo equilibrio multipolare non è certovanificata dagli avvenimenti del Golfo, trattandosi di una tendenza che riguarderà i prossimi anni e decenni e che non va misurata semplicemente in termini militari, ma anche economici, diplomatici, culturali ed etnici. Il bisogno di mettere in graduatoria e classificare la potenza delle diverse nazioni e la loro forza morale non dovrebbe fare dimenticare la necessità che caratterizza tutti i paesi, anche adesso, di muoversi tenendo· conto delle opzioni e delle obiezioni dei loro partner, alleati, avversari. 4 La semplificazione dell' analisi sembra comunque rispondere a un duplice scopo: accoppiare un'informazione di carattere declamatorio-impressionistico, fatta di grandi contrapposizioni e fondata su un facilemanicheismo, con un'indicazione politica che è anch'essa figlia dell'emotività e della ricerca del facile effetto. Pur se il loro peso reale è ben diverso, sembrano rispondere alle stesse esigenze e caraterizzate dallo stesso strumentalismo tanto la retorica bellicista che la demagogia pacifista. La prima, ovviamente, è la più pericolosa, e non solo perché è maggioritaria e dispone dell'.appoggio dei grandi media, primo fra tutti quel formidabile strumento di manipolazione e formazione delle coscienze che è il telegiornale in diretta. Nella tradizione politica italiana, che ha sempre privilegiato gli schieramenti sui contenuti ed è sempre stata caratterizzata da un tasso eccessivo di ideologismo, l'enfasi bellica e l'evocazione artificiosa di antitesti irriducibili quali amico/nemico, assedio/difesa, giustizia/nefandezza, non può che produrre effetti deleteri: più sul piano interno, della coesione e della psicologia collettiva, del consenso e dell'estremizzazione emotiva, che su quello della politica internazionale, dove la ricerca di un ruolo e di uno spazio spingono spesso ad atteggiamenti meno drastici. Ugualmente grave, tuttavia, è che la sinistra non sia stata capace di maturare una propria posizione, muovendosi imbarazzata a rimorchio del governo o adagiandosi su un pacifismo demagogico tutt'altro che privo di connotati preoccupanti. Né si può addebitare solo a opportunismo la metamorfosi che ha portato pacifisti d' antana schierarsi coi falchi del Pentagono e irriducibilibarbudos avestire ipanni dei nonviolenti adiciotto carati. La tendenza a considerare l'attività politica come la conquista di un qualche spazio - grande o piccolo che sia - che si possa gestire a proprio piacimento e su cui poter · imprimere la pròpria egemonia ha coinvolto ancora una volta la sinistra nelle sue anime diverse. Al di là delle petizioni di principio, tanto più roboanti in genere quanto meno profondamente radicate, il consenso alle posizioni pacifiste tende anascondere, e anzi a utilizzare, un'adesione egoistica e opportunistica il cui motto sembra essere I' andreottiano "non farsi coinvolgere". È difficile prendere sul serio chi strilla sull'invio dei Tornadoenonproponepoilosmantellamento immediatodell'industria bellica nazionale per timore di perdere un po' .di consenso sindacale, chi accusa l'occidente di voler fare una guerra per il petrolio ma vuole difendere i consumi e i prezzi attuali del medesimo. Non si sfugge all'impressione, insomma, che il pacifismo sia piirindirizzato aottenere vantaggi politici (di spazio, di immagine, di peso, di ruolo) che non a essere realmente praticato e a costituire la base per una concreta propostadi.politicainternazionale. Conquestononsivuolenegare che molte delle argomentazioni dei neo-pacifisti rispondano al vero, né che siano improvvisamente spariti dalla scena mondiale i motivi e gli interessi che la dominavano nel passato. In ogni demagogia c'è sempredelvero,eil problemaodierno è quello invece di cosa occorra fare per costruire, se può esistere, una coerente posizione pacifista. Senza infingimenti e senza richiami emotivi, pur se bisogna avere consapevolezza che sono i richiami emotivi a formare le correnti d'opinione pubblica. Prima di poter giungere a una nuova definizione dei valori morali che possono e debbono fondare un modello di comportamento internazionale, occorre sbarazzarsi di alcune idee-guida che hanno sorretto negli ultimi decenni, o perlomeno ridimens.ionarne fortemente il carattere di verità unica e assoluta. Parlare oggi dell'imperialismo americano come del primo e solo nemico dell'umanità, con una terminologia da guerra fredda e un'analisi da "anni del Vietnam", può solo servire a taci- . tare i bisogni simbolico-emotivi di qualche militante, non certo a comprendere il mondo in cui viviamo. Così come è inutile e fuorviante restare ancorati a una visione del conflitto nord-sud che è incapace di discernere tra paese e paese, tra governo e popolo, tra ideologia e realtà sociale, tra sviluppo relativo e sottosviluppo, tra corruzione e potere, tra autoritarismo e illegalità, tra violenza e macelleria. Non può bastare dichiararsi antioccidcntali e schierarsi contro gli Stati Uniti per acquistare automaticamente un. credito presso i democratici. Questa posizione, che in passato ha condotto a tragici errori di valutazione - dall'Urss all'Iran passando per la Cina e la Cambogia, per tacere della sottovalutazione dei fascismi che provocò a suo tempo l'ossessione dell'imperialismo inglese--:- è il fondan1ento di un atteggiamento giustificazionista che non ha nulla da. invidiare al peggiore cinismo degli affaristi occidentali, un machiavellismomorale che si giustifica innegativo, con la semplice esistenza di un nemico. La prudenza, in questa fase, dovrebbe guidare maggiormente, anche se non è possibile fare a meno di prendere posizione, soprattutto quando si ha la responsabilitàdirappresentare ediorientare fette consistenti di opinione pubblica. Se non è possibile dare facili ricette non si può neppure restare alla finestra in attesa che gli eventi si facciano più chiari. Anche perché, accanto a controtendenze nuove e positive, vi è pur sempre il carattere profonda- .mente guerrafondaio di buona parte dell'economia capitalistièa, mentre l'ideologia della violenza conquista proseliti sia in campo privat6 che pubblico, favorendo sempre più l'ansia di "restarne fuori" e di coprirsi gli occhi per non mettere in pericolo la propria fortunata situazione di non coinvolti. Meglio però riconoscere i limiti entro cui si è costretti a vivere, e appiattirsi dietro posizioni tutt'altro che esaltanti come la difesa delle risoluzioni dell'Onu e la ricerca di un nuovo ruolo per l'Europa (in cui, del resto, esiste la pcissibilitàdidifferenziarsi), che non ripetere analisi dell' imperialismo fondate suuna contrapposizione borghesie/proletariati e oppressori/oppressi che si è da tempo modificata e complicata. Contrapporre alla retorica bellicista, che finge di non vedere gli interessi economici e di potenza che stan dietro all'agire dei governi occidentali, una demagogia pacifista che riduce a profitto questioni benpiùcomplesse( come opporsi all'aggressione, il diritto all'esistenza di regimi autoritari o feudali, quali connotati definiscono gli amici e i nemici, quali comportamenti politico-morali appoggiare o tollerare o contrastare) non aiuta la faticosa strada della costruzione di una nuova identità. politico-ideale che deve misurarsi con una realtà internazionale in profonda trasformazione. Tensione morale e comprensione della realtà sono due aspe.tti di un medesimo sforzo che è necessario compiere per riformulare brandelli di una decente prospettiva politica per il nuovo secolo. Non appiattire le ragioni aitrui in una caricatura di comodo è 11 primo passo per un dibattito proficuo. Solo con coerenza e tolleranza è possibile costruirsi una identità che metta al bando l'opportunismo verso i governi e la facile ricerca di consenso verso i governati. ~ (M.F.)
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==