oppositiva fra 1'edonismo estetizzante dell'arte per 1 'arte e l'assunzione della letteratura all'interno della sfera morale, che nel percorso biografico e artistico della scrittrice (nata in America nel 1928 da una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia) passa attraverso la riscoperta e l'approfondimento in età matura della cultura ebraica. Ciononostante la Ozick respinge come ossimorica la definizione di "scrittrice ebrea" (intervista di M. Materassi su "L'Indice", n. 4, 1990) con lo stesso vigore con cui rifiuta il concetto di scrittura femminile (Liter:atureand the Politics o/Sex: A Dissent, in Art &Ardor, trad. it. su questa rivista, n. 29, 1988): lo scrittore non può essere costretto entro un codice o identificato con una parzialità, pena la perdita della forza universalizzante che è il necessario corollario etico della libertà creativa dell'artista. Su queste basi, la moralità e la funzione pedagogica dell'arte (ma sarebbe meglio dire il suo contributo al processo di civilizzazione, la sua saldatura alle aspettative umane di redenzione dalla barbarie) nel pensiero e nelle opere della Ozick non ha nulla di precettistico o edificante, pone interrogativi, accende la coscienza critica, ma lascia intatta la CONFRONTI responsabilità dcli 'interpretazione: "La redenzione non ha quasi nulla a che vedere con la virtù ... piuttosto, è l'idea esattamente opposta alla credenza greca nel fato: l'idea che irtsiste sulla possibilità di cambiare la propria vita". A sua volta l'immaginazione letteraria, come ogni opera di creazione, è sempre esposta al rischio di annullare la ricerca di senso, di produrre idoli, di pietrificare la scissione fra il sé e gli altri, e "gli scrittori che insistono a proclamare che la letteratura si risolve nel linguaggio di cui è fatta offrono un idolo: la letteratura per la letteratura, la letteratura per le proprie fauci, non per l'umanità" (/nnovation and Redemption). Contravvenendo ancora una volta alle indicazioni della scrittrice, che mette in guardia dal misurarne le opere narrative sul metro della coerenza con i suoi saggi, si può dire che nello Scialle la Ozick, come la protagonista Rosa, rivendica alla finzione del racconto il potere "di spiegare. Di recuperare, di riparare!" perseguendo, con straordinaria ricchezza inventiva, il tentativo arrischiato di una scrittura capace di convertire "l'immaginazione in serio strumento morale". Un"giovane Holdennell'età dell'AIDS" MarisaCaramella "Improvvisamente ho provato una grande s~a per quelle puttane. Le paragonavo tra me e me ai grossi felini della giungla dei iibri di Tarzan che avevo letto da piccolo. Il leone Numa e il gattopardo Sheetaconoscevano tutte. le creature che passavan<fnella foresta, e sapevano quello che avrebbero fatto. Nel parco venivano a rifugiarsi altre puttane, tutte uguali a quei felini, e si sussurravano a vicenda: 'Ssquadra ... Ssquadra ... arrivano". Alexander V_ine, il protagonista di Notti newyorchesi, di Jonathan Ames (Sugarco, collana Tasco, trad. di Katia Bagnoli e Steve Piccolo, pag. 146, lire 14.000), sta descrivendo un'operazione di polizia in un parco del Lower East Side di Manhattan, operazione che lo sorprende con le mutande calate e il pene infilato nella bocca di Goldie, puttana dai denti (e dal cuore)d'oro. Goldie ha due grossi seni che lo fanno impazzire, e gli sussurra un "Su, bello, vieni per la mamma!" che lo manda in estasi. Alexander ha una ventina d'anni e lavora a New York come portiere al Four Seasons, ristorante famoso e costoso, invece di frequentare l'università e diventare medico, come vorrebbero mamma e papà. Una mamma e un papà ebrei piccolo borghesi del New Jersey, responsabili delle sue· fissazioni sessuali di carattere infantile, non tutte eterodirette, dichiaratamente masochiste, autodistruttive al punto da spingerlo a non far uso di preservativo negli anni dell'AIDS. Detta così, sembra una storia già sentita, già letta, già vista sullo schermo, già sfruttata in tutti i suoi risvolti. Ma raccontata da Ames è veramente un_'altra cosa. Perché lo stesso senso 36 Jonathan Arncs (archivio SugarCo.). dell'umorismo, la stessa intuizione felice che spinge lo scrittore a far uso di quello spassoso paragòne tra le puttane del parco giochi della sua età adulta e i felini della giungla dei suoi sogni infantili, percorre tutta là narrazione. Non importa quale sia la situazione triste, scabrosa, in cui si viene a trovare il nostro giovane eroe, si aspetta con il fiato sospeso, pronti a esalare un respiro liberatorio, la battuta sdrammatizzante, l'introduzione dell'elemento comico. Ames è maestro nel creare questa altalena di tensione e sollievo dalla medesima, e lo fa con grande naturalezza. Non è soltanto Alexander Vine a prendere in giro se stesso, è Jonathan Ames a prendere in giro Alexander Vine, se stesso, e, vien da sospettare, anche il genere letterario, nonché il lettore, il recensore, il· critico. Il sospetto diventa certezza se si dà un'occhiata al materìale fornito dall'ufficio stampa dell'editore. Un breve curriculum autobiografico comincia con questa frase: "Al decimo mese di gravidanza, mia madre mi ha dato alla luce a New York City, il 23 marzo 1964. Quando mio padre fece il solito giro di telefonate ai parenti, nessuno volle credere che fossi davvero arrivato." Continua con una lunga lista dei meriti atletici acquisiti nelle scuole di ogni ordine e grado che farebbe invidia a unni potino di Reagan, dichiara di aver iniziato la carriera di modello fotografico posando per un servizio in mutande di seta rossa. Il tutto con un• impassibilità che è una strizzata d'occhio al lettore, per non lasciar dubbi sull'importanza di questi particolari, sul valore delle proprie imprese, nonché sulla dabbenaggine del lettore medesimo nel caso fosse tentato di pensare che si sta facendo (scrivendo) sul serio. Perfino la foto allegata al materiale promozionale è un capolavoro di gusto reaganiano, e sembra messa lì apposta per far sognare i recensori di entrambi i sessi: nort può essere seria. E serie non possono essere le entusiastiche presentazioni degli sponsor dell'ingresso nel mondo letterario del giovane e affascinante Ames, Joyce Carol Oates e Philip Roth. Cito Philip Roth: "Un incrocio tra Jean Genet e Hqlden Caulfield nell'età dell'AIDS". E un recensore di "Vanity Fair": "Un libro assolutamente sfacciato e sconvolgente, reso ancora più sconvolgente dal fatto che l'autore è un giovane laureato di Princeton di soli venticinque anni." Ora, più che sconvolgente, il romanzo di Ames è rassicurante. Proprio perché è stato scritto da un giovane laureato di Princeton, con la testa fondamentalmente a posto, e perché tutto sommato le avventure sessuali del giovane Vine sono quelle cui ci hanno ormai abituato, da decenni, il cinema e la letteratura che hanno come sfondo la punta dell'isola di Manhattan. Il Lower East Side è un quartiere che attrae irresistibilmente gli "outoftowners", i nuovi arrivati, oltre che i turisti. Li attrae perché è un concentrato delle miserie e dei pericoli con conseguenti brividi che chi sbarca a New York va immancabilmente a cercare dopo averne contemplato gli splendori. Per andare nel Bronx, o a Harlem, bisogna essere un parlamentare comunista italiano in visita, oppure partecipare a un tour organizzato, perché lì non si scherza. Nel Lower East Side, invece, i brividi sono in definitiva a buon mercato, turistici ma intellettualizzabili, reali ma già esorcizzati da· parole e immagini divenute ormai di repertorio. E per questo che gli orgasmi a pagamento nei vicoli e nei giardini bui del giovane Alexander in cerca di emozioni autodistruttive non stupiscono più di tanto il lettore, tantomeno lo sconvolgono. Né sono una novità le scorribande
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