Linea d'ombra - anno VIII - n. 53 - ottobre 1990

CONFRONTI Memoria e metafora del lagér. Loscialle di CynthiaOzick Santina Mobiglia L'ultima opera pubblicata in Italia di Cynthia Ozick (Lo scialle, Garzanti, 1990, trad. di Milka Ventura, pp. 96, L. 15.000) è un lungo racconto in due tempi (dati alle stampe in origine s~paratamente, sul "New Yorker", 1980 e 1983). La cesura interviene dopo poche pagine e segna la crepa scavata nella vita della protagonista dalla cognizione dell'orrore del lager, con la susseguente impossibile riconciliazione col mondo. La prima e brevissima parte, che dà il titolo ·allibro, in una prosa serrata e totalmente priva di dialogo tra i personaggi, illumina come in un lampo l'antefatto: lo scialle è un misero cencio che, nel "luogo senza pietà", diventa il disperatonido salvifico della neonata Magda, la occulta contro il seno esausto della madre - "un vulcano spento, occhio cieco, buco gelido" - nel dondolio delle marce ali' aperto e nel chiuso delle baracche, trasmette calore e linfa vitale, latte di lino succhiato dai fili inondati di saliva. Un giorno la piccola, perduto per un istante l'abbraccio materno dello scialle, si avventura barcÒllando all'esterno. Raggiunge lo spiazzo, sotto lo sguardo paralizzato della madré viene • ghermita da una figura nera sovrastata da un elmetto lucente: fluttua nel!' aria, si schianta contro i reticoli elettrificati del campo. "Avevo freddo'' sono le uniche parole in discorso diretto dell'intera sequenza narrativa. Le pronuncia la terza figura femminile, la nipote quattordicenne Stella, a giustificare il gesto elementare con cui aveva tirato asélo scialle, l'inizio della catastrofe. · La seconda parte, Rosa, la più corposa del racconto, vede al centro la madre, 'l'ebrea polacca Rosa Lublin, trapiantata da molti decenni in America con la nipote, su cui non ha cessato di riversare fantasie ostili ("Stella, già quasi cinquantenne, l'Angelo della Morte"), quasi a cercare dimensioni familiari e maneggevoli per colpe smisurate e senza volto. Rosa non può e non vuole dimenticare l'esperienza dell'inferno, fissazione ossessiva attraverso cui filtra la sua percezione della realtà riscoprendovi continuamente, sotto la crosta delle apparenze, le forme archetipe del male. Finisce per relegarsi a Miami, in una sordida stanza d'albergo, dopo aver sfasciato in un accesso di furia il suo negozio di mobili usati a Brooklyn: "Non mi piaceva chi ci veniva. .. Chiunque venisse, erano come sordi. Qualunque cosa tu gli spiega~si, loro non capivano." Adifferenza di Joseph Brill, il protagonista dell'unico romanzo già noto in Italia della Ozick (La galassia cannibale, Garzanti 1988), anch'egli ebreo sradicato dall'Europa dai venti dello sterminio e approdato in America a un'illusoria identità ritrovata come direttore di una scuola-modello, Rosa Lublin è una donna che non vuole ricominciare: "La vita prima; la vita durante, la vita dopo ... La vita dopo è adesso. La vita prima è la nostra vita vera; a casa, dove siamo nati." "E il durante?" "Quello è stato Hitler." ... "Il prima era un sogno. li dopo è uno scherzo. Rimane solo il durante. E chiamarlo . vita è un.amenzogna." Solo una follia visionaria le permette di riannodare i fili recisi della sua storia individuale, che rivive nel culto feticistico dello scialle, reliquia tangibile del passato, e nel perfetto polacco letterario con cui scrive alla fantasmatica figÌia adulta, miraggio di un futuro mancato. Massimalista della scrittura; come ama polemicamente definirsi, Cynthia Ozick ci offre in questo racconto un esempio alto della sua ·forza narrativa; densa nei significati e nel linguaggio, reso lapidario da una sintassi nominale e spezzata; sempre balenante di immagini concrete ma vigorosamente allusive. L'implacabile sguardo di Rosa, che soverchia continuamente con l'urgenza dell'allucinazione il distacco della narrazione in terza persona, mette -a nudo nel paradiso ·americano della Florida un paesaggio irtfernale, arroventato dal sole e impastato di odori nauseabondi, popolato di anziani pensionati, ebrei in larga parte, vecchiaie impudenti mascherate da protesi e tinture, "gusci, giìi fritti" ... "casse toraciche vuote sotto il disco assassino del sole" ... "clavicole feroci, le fondamenta grinzose di petti°devastati". Intrappolata sulla spiaggia dal filo spinato che circonda gli stabilimenti balneari, moderna "Sodoma e Gomorra" brulicante di amplessi omosessuali, Rosa assale il direttore: "In Cynthio Ozick in uno foto di Giovanni Giovonnelli. America non c'è posto per il filo spinato in cima ai recinti ... Che vergogna ...un Finkelstein come lei." Ma il presente è specchio del passato solo per chi non è cieco e sordo, come lo erari<;> i clienti del negozio pieno di "specchi della nonna" che Rosa aveva mandato in frantumi. Come continua a fare a pezzi le lettere del dottor Dell'Albero, interessato a lei in quanto esemplare della categoria dei "superstiti" su cui verificare la teoria della "Vitalità Repressa" nell'ambito degli studi per il Contesto Umani~ tario di una fondazione accademica. Penso abbia ragione Cesare Cases quando osserva ("L'Indice", n. 4, 1990) che la narrazione dell'antefatto, dentro il lager, forse non è veramente necessaria al racconto. TI lirismo tragico della pagina letteraria corre inevitabilmente il rischio dell'evanescenza di fronte alla cruda verità documentata dai testimoni. Il tema del ricordo di Auschwitz, polo magnetico della coscienza del nostro tempo, resta scolpito con magistrale vigore nella coazione ossessiva di Rosa, indenne, nella follia, dell'alienazione nella banalità dell'oblio. Non si può non ritrovare, nello Scialle, una compiuta realizzazione dell'idea di letteratura come "metafora e memoria" espressa dalla Ozick nel saggio che dà il titolo alla sua ultima raccolta (Metaphor & Memory, New York 1989). Chiave dominante del suo stile narrativo, la metafora per la Ozick saggista non è il frutto gratuito dell'ispirazione poetica, essa assume innanzitutto una valenza etica, in quanto figura semantica per eccellenza capace, nel doppio movimento dall'esperienza concreta all'idea, di "convertire la memoria inun principio di continuità", contro le tentazioni postrno- · derne della rottura e dell'originalità a tutti i costi, originalità senza origini ed eccentricità senza centro (cfr. T~e Muse, Postmodern arui Homeless, ibidem; e anche [nnovation and Redemption: What Literature Mean.s, nella precedente raccolta Art & Ardor, New York 1°984).La metafora-presuppone il giudizio sulla storia e solleva la memoria a parabola; come nell'interpretazione senza fine della tradizione ebraica del midrash, perenne decodificazione del senso morale della storia attraverso il racconto di una storia. Così nell'ebraismo (''Una nazione di schiavi è diversa da una nazione di filosofi") la Ozick coglie la genesi della metafora: l'imperativo etico che impone di trattare "l'altro come te stesso" trova il suo fondamento biblico nel ricordo della schiavitù in Egitto. La memoria dell'oppressione diventa metafora della pietà e fonda il principio universalistico della reciprocità fra gli uomini. Senza addentrarci lungo i percorsi della rigida alternativa delineata dalla scrittrice fra paganesimo ed ebraismo, quasi luoghi ricorrenti dello Spirito, con tutti i rischi della riduzione di culture ad essenze, vale la pena invece di cogliere in essa il cuore della riflessione teorica e critica dei saggi della Ozick. Come osserva Mario Materassi nell'utile postfazione all'edizione italiana dello Scialle, "la Ozick drammatizza assegnandole schematicamente al mondo greco (o pagano) e al mondo ebraico... due componenti interiori che la scrittrice candidamente riconosce in sé", nella tensione 35

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