Linea d'ombra - anno VIII - n. 53 - ottobre 1990

IL CONTESTO Politica Guerra si,· guerra no internazionale, nazionalismi e petrolio Joaqu(n Sokolowicz Potrebbe scoppiare la guerra - ci chiediamo - nel corso dei dieci-quindici giorni che passeranno dal momento in cui queste righe vengono scritte a quello in cui saranno arrivate al lettore? Sì, potrebbe. Ma non ci sono forse elementi, negli sviluppi della crisi, che facciano intravedere una via d'uscita per evitare la conflagrazione? Sì, ci sono. Tutto è possibile, l'ipotesi peggiore così come l'auspicabile compromesso, visto che sono stati fatti finora (terza settimana di settembre, la settima dell'occupazione irakenadel Kuwait) passi gravi in un senso e in quello opposto delle ritorsioni mentre allo stesso tempo si dovrebbe però preferire da una parte e dall'altra, per logica, una pace con concessioni ai costi spaventosi di una guerra quale si è prospettata dietro i fatti di queste settimane. Ma quale logica? La stragrande maggioranza dei governi del mondo, non soltanto gli Stati Uniti, intendono impedire che un uomo solo controlli - con l'annessione territoriale compiuta - più della metà del petrolio prodotto in Medio Oriente. Quest'uomo sa, da come si sono quindi messe le cose, che è destinato alla disfatta finale in un'eventuale guerra e perciò dovrebbe cercare di evitarla a tutti i costi. Solo che lui, considerando presumibilmente e giustamente che la sua sorte sia segnata: (che cioè gli americani e altri non smetterebbero in qualsiasi caso gli sforzi per liquidare il suo regime, capace di provocare simili scossoni nel sereno clima del dopo-guerra-fredda), potrebbe non avere interesse a un formale accomodamento e decidere allora di lanciarsi nell'impresa suicida, che comunque provocherebbe danni enormi al nemico. Tuttavia, visto il personaggio, che già in passato ha dato vita a rovesciamenti persino clamorosi di precedenti sue posizioni, non sarebbe nemmeno azzardato ipotizzare un atteggiamento del tutto opposto a quello: se l' embargo economico internazionale contro l'Irak dovesse far sentire prima del previsto gli effetti con esso proposti, provocando nel suo paese un malessere dilagante con riflessi ai livelli più alti del regime e se per controllare una tale situazione non gli bastassero i suoi soliti .metodi brutali, potrebbe ripiegare cercando le garanzie per la permanenza al potere in ripristinate alleanze internazionali. Sull'altro versante quello dell'affollatissimo fronte dei responsabili dell'embargo e dj coloro che hanno spedito truppe ai confini con l'Irak, sembra di cogliere preoccupazione per il prolungamento dei tempi della crisi. Gli effetti delle sanzioni (la cui applicazione più o meno rigorosa sembra assicurata, al momento di scrivere) si faranno sentire non prima di sei mesi e solo çlopo un anno in forma davvero pesante. Troppo lunga sarebbe quest'attesa, per gli alleati, perché già adesso va cambiando radicalmente la fisionomia demografica del Kuwait secondo i disegni degli occupanti il cui sgombero loro esigono e perché i vari gruppi terroristici convocati da Baghdad perché riprendano l'attività internazionale metteranno in campo presumibilmente con frequenza in crescendo un fattore di pressione dal duplice obiettivo: far distogliere almeno in parte l'attenzione dello schieramento militare anti-irakeno dal centro della crisi e tentare di indebolire questo fronte con il ricatto del terrore sui singoli suoi membri. Non è facile da prendersi una decisione di attacco quando in gioco è la vita di centinaia di residenti e turisti stranieri presi astutamente in ostaggio dal capo di Baghdad, anche se da Washington il presidente Bush dice che è pronto a prenderla. Peraltro, considerate le armi in potere degli irakeni (missili a testata nucleare e gas asfissianti, fra l'altro) e l'importanza numerica delle loro forze militari (un milione di uomini), i morti in una guerra contro di essi si conterebbero a migliaia, forse a decine di migliaia, anche se durasse appena qualche settimana. (Ci fu uno scandalo nell'opinione pubblica americana quando si seppe che nell'intervento a Panama, l'anno scorso, erano caduti quasi una trentina dei propri soldati). Certo non possiamo sapere se sia in programma un blitz per farla finita senza eccessivi costi con chi ha provocato il terremoto politico-strategico in corso; nessun dubbio sul fatto che siano al lavoro per organizzare qualcosa del genere i servizi segreti non solo americani. Quello che noi conosciamo, le iniziative e i gesti di pubblico dominio, consentono un'analisi la cui conclusione è che, quando sono trascorsi cinquanta giorni dall'invasione del Kuwait, le due alternative alla vista (guerra ò compromesso di pace) hanno uguali probabilità di avverarsi. Saddam Hussein, presidente della repubblica, primo ministro, capo del Consiglio rivoluzionario e segretario generale del partito Baath è il "numero uno" a Baghdad da undici anni. Già prima era stato, per quasi un decennio, il vero "uomo forte" del regime mentre svolgeva un ruolo nominalmente di secondo piano. Consolidato il suo potere personale nei primi anni del ventennio trascorso mediante l'assassinio di avversari veri o ipotetici (diverse centinaia) e con l'affidamento dei vertici del regime a uomini del suo villaggio natale, compresi parecchi parenti, si dedicò con passione al tentativo di tràSformare l 'Irak in una potenza. Il pae,se doveva quanto meno strappare la leadership nel mondo arabo all'Egitto e (una volta che questo paese venne condannato all'isolamento per avere il suo presidente Sadat riconosciuto Israele) alla Siria, retta dal partito interarabo nazioTruppe americane nel deserto - (foto di FredMoyer/Mognum/ G.Neri). o

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