Linea d'ombra - anno VIII - n. 52 - settembre 1990

STORIA TRAGI-COMICA DI UN PROCESSO PER COMISO Alberto L'Abate Una confessione personale Ncin so se serve a molto confessare pubblicamente i propri peccati. Forse per guadagnare la simpatia del Padre Eterno sì. Sicuramente non per essere creduto dagli uomini, o almeno dai giudici. Que~ta è l'amara esperienza avuta nel processo svoltosi il 16 maggio scorso a Ragusa. In esso sono stato infatti assolto"pernon aver commesso il fatto", malgrado avessi dichiarato, o meglio confessato ripetutamente, di fronte al giudice. istruttore e di fronte alla corte, di aver occupato e bloccato la strada del Magliocco per dimostrare contro l'impianto di missili di primo colpo a Comiso, e per impedire il transito da e verso la base, perché convinto che "l'installazione della base missilistica è contraria alla nostra legislazione costituzionale". Ma torneremo più tardi sul processo, che è il soggetto prinèipale di questa storia. Nelladenunciadellaquesturadi Ragusa che ha portato, con circa 6 anni di ritardo, al processo in questione, gli estensori, parlando delle nostre svariate occupazioni della "sede stradale" per impedire il traffico da e verso la base, e dei ripetuti tentativi delle forze dell'ordine di liberare la strada(il 26 settembre 1983), così scrivono di me: "nel corso di quest'ultima operazione di sgombero, personale operante provvedeva ad accompagnare al commissariato di Comiso L'Abate Alberto ... in quanto rilevatosi (sic!) uno detpiù accesi promotori delle suddette turbative dell'ordine pubblico". Ma questo non giustificherebbe il titolo di questo resoconto se la questura non avesse colto, con questa sua frase, una mia profonda vocazione, rivelatasi (questa si!) circa 30 anni fa in questa stessa• terra di Sicilia. La· vocazione di "turbatore dell'ordine pubblico" mi era venuta come illuminazione- non solo i santi le hanno, m.à anche i peccatori! - nel lontano 1956, a Corleone, mentre partecipavo alla Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci. Come gruppo di ricercatori, oltre alle domande richieste da Danilo, che noi facevamo non molto convinti della validità delle stesse come strumenti di rilevazione (quali, ad esempio : "Dio vuole che tu sia disoccupato?"), avevamo messo a punto una procedura di rilevazione non troppo originale, ma secondo noi efficace, che consisteva nel cercare di ottenere il massimo numero possibile di informazioni sulla "mafia" e sui mafiosi a livello locale, attraverso interviste libere con personalità e cittadini del luogo. Si cominciava di solito con !"intervistare 'il comandante della stazione locale di polizia che ci faceva quasi sempre fermare, appena arrivati nel paese, quali sospetti "turbatori dell 'ordinepubblico". Egli si meravigliava parecchio, e probabilmente aveva conferma dei suoi sospetti, quando, appena fermati, invece di attendere le sue domande, e rispondervi, come era la prassi normale, cominciavamo noi a porgli domande su chi erano i mafiosi, cosa facevano, e cosa faceva lui per ostacolarli e identificarli. Non molto sembra, almeno dal!' esperienza di Corleone, in cui usammo, in quella lontana estate del 1956, la stessa procedura. Ma il comandante non seppe, o non volle, dirci niente. Bastò uscire fuori e fare qualche altra intervista, questa veramente "libera", per sapere che il capo mafia era il Dott. Navarra, direttore dell'ospedale locale, e che l'arciprete locale era "amico" suo e dei suoi amici. Così decisi di intervistare ambedue. La · delusione più grande fu quella di Navarra, che alle 11 di mattina era già del tutto ubriaco e farfugliava risposte senza gran senso alle mie domande sui problemi dell'ospedale e sulla situazione igienico-sanitaria del paese. Un mese più tardi Navarra fu ucciso da una cosca mafiosa concorrente (sembra quella di Liggio). Ricordo ancora il titolo gigante del giornale dei "benpensanti" di Palermo che suonava pressappoco così: . "L'integer.rimo (sottolineatura mia) Prof. Navarra, direttore dell'ospedale di Corleone; ucciso da una cosca mafiosa avversaria". E lì fiumi di parole per meravigliarsi che un professionista così stimato (sic) potesse essere un capo mafia. Ma l "'illuminazione" vera e propria mi venne durante l'intervista con l'arciprete. Alla mia domanda sulla mafia rispose ali' incirca così: "Un tempo la mafia c'era. Ma ormai i quattrini se li sono fatti. Oraè tuttagentedell'ordine!". Se questo era l'ordine, io non potevo che essere un turbatore di tale ordine, un agitatore, una persona che agisce ed educa gli altri (data la mia professione di insegnante) per distruggere quell'ordine e far nascere un ordine diverso, non basato sui "quattrini già fatti",. o sulle "canne-più o meno mozze - dei fucili", o sui missili, o su altri strumenti di morte, ma sulla solidarietà e il rispetto tra gli uomini, in particolare tra e con gli "ultimi", quelli che l'ordine costituito relega ai suoi margini. Da lì la mia vocazione a "turbatore dell'ordine pubblico". Questa prima "illuminazione" è stata poi confermata e rinforzata da tre episodi avvenuti a Palermo, città in cui avevo èleciso, dopo la ricerca, di andare a vivere e a lavorare a tempo pieno, in uno dei quartieri peggiori e più malfamati, '!Cortile Cascino". Con altri volontari, facevamo scuola agli adulti e ai bambini del cortile, e portavamo avanti una ricerca più approfondita-rispetto a quella apparsa nel libro di Dolci-sulla vita nel cortile, e sui problemi del suo risanamento, i cui risultati saranno poi alla base della mia tesi di laurea in scienze politiche. Durante il mio lavoro mi era capitato di venire a conoscenza di due pr~cessi, uno contro un "cascinaro" che vendeva, abusivamente, pane integrale fatto nelle campagne palermitane, e l'altro contro una ditta che sfruttava il lavoro di un bambino del cortile. Il primo è terminato con una condanna a una multa piuttosto elevata, che il "cascinaro" non aveva la possibilità di pagare; il secondo si era invece concluso con una condanna irrisoria, puramente simbolica, che non poteva certo servire per scoraggiare lo sfruttamento del ,lavoro minorile, ma al contrario tendeva a stimolarlo. Di fronte alle mie proteste per l 'ingiustiziadi questa sedicente "giustizia", che puniva la vendita di pane integrale, che nel complesso fa più bene alla salute di quello bianco raffinato che si trovava dai normali fornai, e premiava invece lo sfruttamento del lavoro infantìle, una delle piaghe più grosse del nostro mezzogiorno, Nino, un nostro amico, avvocato palermitano difensore "gratuito" delle cause degli oppressi, mi disse una frase che mi torna spesso alla memoria come una staffilata: "Perché ti meravigli? Prendi il nostro codice e pesalo!. Vedrai che le pagine delle norme che difendono i diritti di base del!' uomo pesano pochi etti, quelle a difesa della proprietà privata, parecchi chili!". II secondo episodio avvenne durante la costruzione del nuovo palazzo di giustizia. Un operaio del cortile cadde dalle transenne e morì. Come moltissimi altri operai, non risulkiva regolarmente iscritto. Ma le • ditte costruttrici di Palermo, si era nel 1957, usavano fare una o due iscrizioni in più senza nominativo, che veniva aggiunto in caso di necessità. Così anche il morto fu rapidamente "iscritto", e la sua famiglia poté essere, almeno parzialmente, indennizzata (cosa sono però pochi soldi nei confronti di una vita umana!), grazie al fatto che la "giustizia" aveva chiuso un occhio su tutta 1 'operazione chiaramente "illegak". Ma tra i "cascinari" la coscienza di essere quotidianamente oggetto di una "ingiustizia costituita" era così grande che il nuovo palazzo in costruzione, da cui era caduto il loro vicino, era soprannominato il "palazzo dell'ingiustizia". Il terzo episodio avvenne non molto dopo. In un cinema di periferia di Palermo proiettavano un film ambientato in Grecia, Colui che deve morire, in cui si fronteggiavano due concezioni religiose opposte: una della religione come sostegno dello ·status quo (ricordo ancora l'urlo degli spettatori, che identificavano l'allora cardinale di Palermo con il capo di questa "chiesa"), e una invece della religione come rivoluzione dell'ordine costituito, come sovvertimento delle. sue basi, come rivoluzione "totale", come dicono i nostri amici nonviolenti indiani, e cioè come una rivoluzione che comprenda non solo gl1aspetti strutturali, ma anche quelli personali e i rapporti tra uomo e natura. La grande maggioranza degli spettatori si identificarono, me compreso, con questa seconda 71

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