Linea d'ombra - anno VIII - n. 52 - settembre 1990

STORIE/RADZ:ERYICIUS la verità. C'e ano momenti, quando sentivo nostalgia di qualcuno, in me un'onda di calore straripava, conversando con uno o con un altro. Ad alcuni ripensavo anche di notte, a volte uno o l'altro per qualche giorno non usciva dai miei pensieri. Ma soltanto per qualche giorno. Perfino mi rallegravo: forse adesso è venuta la fine della mia solitudine, forse di nuovo vivrò la vertigine di quell'amore ch'è stato, forse tornerà come torna il sereno o la pioggia vivificante a primavera. Ma la speranza durava poco: di nessuno la voce rrii risuonava come di quello, di nessuno sussurravano il nome, le mie labbra, non uno di quelli desiderava il mio corpo. Finora non uno è entrato nella mia vita. Forse mi bastava anche ciò che ho - il lavoro, mia figlia, questa stanza silenziosa, queste cose silenziose, testimoni e reliquie di quell'amore, il mio viso riflesso dallo specchio, il capo un po' reclinato sulla destra - tutto questo non era affatto una parte secondaria della mia vita. Niente, mi pare, io non aspetto più niente e niente forse mi manca. Però oggi mi scopro troppo a lungo in piedi accanto al letto. Per qualche motivo non oso andare fino allo specchio. Quest' incertezza è strana. Forse perché nella stanza fa più freddo del solito. Sto ritta in camicia e sulla schiena avverto fissi in me gli occhi della piccina. Alzato il capo, mi osserva. Mi volgo e vedo che dorme ancora. Ma io penso che finga soltanto di dormire, benché veda come la sua testolina sia profondamente affondata nel cuscino, benché avverta il respiro regolare. Eppure non mi basta. Mi avvicino, la scuoto un po' con la mano e solo quando prende a mormorare qualcosa mi convinco che davvero dorme. Poi, metto in ordine la camera e spolvero i mobili, facciamo colazione e andiamo a scuola tutte e due. Nel vano della porta mi volgo, con un colpo d'occhio abbraccio i mobili: mi sembra d'aver dimenticato di riordinare qualcosa. La striscia di luce ricade sulla cassettiera, sui libri accatastati sugli scaffali... Ma la bimba mi strattona il braccio e noi andiamo. Nell'ingresso m'accorgo che il suo fiocchetto s'è spostato da una parte, allungo una gamba, un braccio, mi chino: lei è nel vestibolo e si.sforza di chiudere la porta. Il mio movimento chissà come e perché mi rammenta di quando nel bosco mi chinai poiché avevo visto un fiore dallo stelo lungo ed esile. Allora ebbi un grido - no, ~on fu di sorpresa inautentica, mi piaceva davvero quel fiore - e mi chinai per coglierlo. D'improvviso la mia mano, allungata verso il fiore, si paralizzò, mi dominò una tale forte convinzione che lui - il padre della bambina - sarebbe accorso presso di me, che non poteva non accorrere mentre così mi chinavo. E in verità sentii sulla vita la sua mano. Adesso, mentre aggiusto il fiocco della piccola, sulle mie labbra è impercettibile l'espressione che mi percorse il viso la volta che fui con lui nel bosco. Mi curvo sulla bimba, la guardo negli occhi e dico: - Ah, tu, birichina, farai la brava oggi? Troppo liete e sonore riecheggiano le parole, troppo vissuta la voce. Perfino la bimba mi guarda con occhi interrogativi. Con chi, a chi sto parlando? Voglio che lei mi guardi in viso, che risponda qualcosa. Ma lei in silenzio tenta ancora d'aprire la porta del vestibolo, la scuoto da dietro e apro io stessa. Odora del fresco del mattino. Ripongo nella borsetta le chiavi e per il 62 campo c'inoltriamo verso la grande costruzione di mattoni bianchi. Erba bianca, crepitìo sotto i piedi. Pare che negli stretti · fili verdi una vita dirompente abbia ~salato la sua fredda umidità che ora luccica nel sole assieme al pulviscolo bianco e fine. Accanto alla ·scuola un acero, a terra un grosso mucchio di foglie morte. Placido, come se cori tutti i rami fosse scosso dalla frescura, s'erge un vecchio albero dai rami nodosi. Durante il giorno mi sono accostata più volte.alla finestra e nella valle vedevo sempre la bianca erba, non ancora raggiunta dai raggi del sole. Ma nella luce piena del meriggio, rientrando a casa, anch'io porto il cappotto riverso sul braccio, e come ieri risplende un sole cocente, è quasi afoso, l'erba di nuovo scuramente verdeggia, e di notte non gela. Solo troppo pallido il cielo, eccessivamente sonore le voci degli uccelli. Già si levano in fila indiana le gru, rieccheggiano i loro stridi e in alto volano nella stessa direzione del sentiero che conduce fuori da questo paese. Buon per loro, le attendono nuove mai esperite estati, sponde di terre mai vedute. lo rimango nell'ombra dell'albero e, col capo all'indietro, guardo in alto. Con nubi gialle cadono le foglie, il sole già tende verso la collina, nera è l'ombra della nostra casa ... Preda d'una strana inquietudine, quasi paura, apro svogliata la porta, ripongo la chiave nella borsetta. Dalle finestre ormai non penetra più il sole, bui tutti gli angoli, tutte le cose toccate . al mattino avvolte in un insolito silenzio, non le ha mosse la mano di nessuno e neanch'io ho voglia di toccarle. Il muoversi della chiave nella porta e i miei p~ssi hanno sollevato rumori chiari e distinti. Sembra che essi abbiano risuonato solo perché immediatamente dopo potessero dissolversi, tacessero, così come fragorosi s'erano annunciati. Attraverso più volte la stanza, urto la bimba che ripone i libri sul tavolo, la sostengo quanto basta perché non cada, e, senza badare ai suoi strilli, siedo sul sofà e guardo dalla parte dov'è appeso lo specchio. - Mamma - , sento la voce della piccina. Mi volgo a lei e vedo un foglio a quadretti, spiegazzato, che reca scritti dei numeri. Lo prendo nelle mani, lo poso sulle ginocchia e nuovamente guardo la finestra. Mi ridestano gli strattoni alla manica della bimba. . - Ah, sì, il quaderno dei voti... - dico, ma gli occhi guardano soltanto e ancora la finestra, dal colle ormai digradano le ombre, talvolta per il sentiero passa qualcuno. Chi rientra con la spesa, ecco, dalla bottega, sono già passate le sei e tra poco chiuderà, anch'io dovrei andare, in casa è finito il pane, forse ne hanno portato di fresco, e delle confetture. Ma no, dalla mia stanzetta oggi non uscirò più, per la prima volta mi sono così stranieri i campi di questo paese, i tetti della fattoria che sporgono dietro il colle. Con le mant riposte sui ginocchi, siedo poggiando i piedi alla finestra nella striscia disegnata dalla luce declinante. "Perché m'i hai abbandonato?". La domanda mi punge per la prima volta con un così acuto dolore. Nessuno vede come mi levo al mattino, nessuno vede come entro ogni giorno in classe, il capo reclinato sulla destra, nessuno si giova del dolce sorriso che mi trascorre dagli angoli delle labbra e con il quale saluto me stessa e gli altri.

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