IL TESTO CHE LEGGE SE STESSO Un diario fra i diari di Centroeuropa Vladimir Mikes Nel 1921 Kafka scriveva nei suoi Diari: "Colui che non è capace di accordarsi vitalmente con la vita, ha bisogno di una mano per spostare un po' la disperazione che gli procura il suo destino..., per poter con l'altra annotare quello che vede sotto le macerie, perché costui vede qualcosa di diverso e vedepiù che gli altri, è un morto vivo, un-sopravvissuto." ·Nello stessoDiario Kafkamedita sul carattere delle letterature "minori", avendo in mente le letterature boema ed ebraica, e dice: "un popolo piccolo scrive la sua letteratura come un diario, cosa completamente diversa che scrivere la storia...", "ciò che nelle grandi letterature si svolge sotto la superficie e costituisce le indispensabili fondamenta nascoste, qui si svolge in piena luce, ciò chy lì provoca un tumulto momentaneo, qui ha conseguenze non meno gravi della scelta fra la vita e la morte." Le citazioni si illuminano a vicenda: Kafka rispecchia Praga e viceversa. Con tutta la sua opera Kafka scrive un diario ~ la decisione fra la vita e la morte, - la descrizione di ciò che vede sotto le macerie. Ma questo è anche espressione di un certo tipo di "céchitudine". Da questo pensiero scaturisce tutta la corrente della poesia boema fin dal suo inizio, da K. H. Màcha. Ne ho già parlato più volte altrove: la vita nella lingua minacciata sia dall'esterno che dall'interno, nella scelta perpetua fra la vita e la morte; la lingua che tocca il suo limite, la spaventosa possibilità di non essere; e nello stesso tempo: scrivere in tale linguaggio significa scoprire il senso della limitatezza; e annullare paradossalmente la limitatezza per mezzo del suo significato, dare senso alla finitude humaine, non rassegnarsi alla vita che si dirige verso la fine; scrivere nel linguaggio destinato al non essere; con il poema "di quello che si chiama il Niente" sradicare la nullità; vivere con la fine, in un certo senso dopo la fine; vivere il linguaggio come dramma, non sdrammatizzare fa vita con il linguaggio; e fare così dal linguaggio il corpo; il proprio corpo, non avere nient'altro che questo corpo, il corpo del linguaggio; incorporare tutta la vita nel linguaggio; sapere che tutto si svolge nel linguaggio, se non abbiamo nient'altro; fare per il tramite di questo corpo una strana - vorrei dire centroeuropea - esperienza con il tempo: la verticalità del tempo in confronto alla sua orizzontalità, in un certo senso la verticalità barocca in confronto all'orizzontalità rinascimentale, il tempo del 'albero in confronto al tempo del mare: non il presente ondeggiante del mare, il tempo liquido, l'apertura verso il presente che non si ripensa (quello che fa dire a Orten: "Io non La pensavo quando ero con Lei") ma unpresente tutto diverso, il presente della foresta boema, che si fa conoscere dopo tanti anni, quando il tronco tagliato cade e fa vedere nella piaga i suoi "anni", come questa nostra lingua chiama gli anelli, il suo presente trapassato, incorporato nel tronco. È come dire: il presente è irraggiungibile e non si può leggere che dopo anni, dopo il ritorno holderliniano dal "fuoco greco": siamo leggibili solo nella nostra sparizione. "Alberi degli anni, come si cresce ..., come state alberi annosi...?" domanda Orten nella sua ultima poesia. E se il tronco del linguaggio non sarà tagliato, non sarà letto mai? ~on fa niente. Questo nostro linguaggio è ostinato: con la 36 manokafkiana che stringe lapenna e stila note a ogni costo, scrive il suo diario ogni giorno, per non essere schiacciato. Tanti diari sono nati a Praga dai tempi di Kafka. Abbondano soprattutto negli ultimi anni (in questi "anelli" del tempo non ancora visti); ma di quelli non voglio parlare, non li conosco nemmeno e non c'è speranza di poterli leggere nel tempo che la - nostra - vita ha a sua disposizione. Essi sono non-letti. Ed anzi questa non-lettura li fa ritornare a loro stessi, li costringe a compiere dopo secoli uno Heimkehr, un ritorno a casa - dal deserto dello scrivere. Li costringe a compiere la strana triade della lettura: Dio-la gente-nessuno... Nessuno. Dante non aveva bisogno di essere letto. Sopra ogni sua riga, già nel momento in cui la scrive, si alzano gli occhi dell'Onnilettore.La parola, il testo scrittosono letti da Dio; non dal dio della storia, ma da quello che non ha storia e legge tutto con infinita pazienza, ogni testo umano, anche quello non dedicato e non consegnato a nessuno. Del resto Dante non fa che trascrivere un testo non suo, un testo dell'Onni-lettore, nel modo imperfetto in cui il corpo imperfetto può incarnarlo. Questo testo non è mai solo: è tutto scritto per )a·lettura "gentile", anzi questa lettura veggenteequivale all'atto stesso di serivere, atto cheattraverso sé vuol capire il senso del descritto, come la lingua vuole capire ciò di cui parla. Il mondo è il mondodella significazione, è "il visibile vestito o il simbolo del pensiero", la scrittura è il cammino verso questomondo ,verso ciò che è scritto, verso laparola e il testo che esistono findall'inizio. Nessuno è più lontano di Dante dal diario: egli non vuole conoscere "se stesso", vuole essere, nel modo migliote la parte chiara del testo dell'universo. Ancoranella metà del Seicento- soprattutto nella letteratura del "secolo d'oro" spagnolo - riappare, già sotto la pressione dell'angoscia, la concezione del mondo come mondo della significazione.Calderòn parla della "carta blu del cielo" (cartacoperta di scrittura), della carta, della terra, dell'essere, di tutto ciò che si . vede.Però l'inquietudine dello scrivente già insiste: larealtà e noi in essa siamo la scrittura che si alza verso la grazia della lettura anche a costo del 'autodistruzione. L'angoscia dell'illeggibilità si avvicina. Si deve salvare la lettura, impennarsi verso di essa, costringere l' Onni-lettore a non volgere altrove lo sguardo: essere "un artista digiunatore", o montare sul rogo acceso con la propria mano, e con il bagliore del fuoco attirare a sé la lettura. "Muoio di non morire," esclama santa Teresa d'Avila. Brucia nel desiderio della lettura definitiva, e nota riga per riga il suo ardere: solo quando brucia salva il mondo e la sua leggibilità. Inunmomento simile si colloca ancheJan Hus sul rogo acceso con la carta dei suoi testi, e canta anche nel fuoco: solo quelli che sanno leggere dalle labbra sentono il suo canto attraverso il crepitio del fuoco, gli altri spettatori non capiscono più niente. Mail tempo del "non-letto", il tempo dello scrivere solitario è imminente. La statua non è più il simbolo, diviene "lei stessa". Nasce il teatro nel teatro, il romanzo del romanzo, la pittura della pittura, la poesia sulla poesia. La forma si fa sempre più visibile, più "attraente", l'Onni-lettore si allontana tra le nebbie e rimane una sola possibilità di lettura - esser letto dagli altri. La lettura piena di solitudine. Il barocco sperava ancora di attirare lo sguardo dell'Onni-lettore: la statua barocca che è come se con i
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