CONFRONTI culturale nell'eliminare ogni possibile appello alle facoltà critiche del lettore". È proprio contro la riduzione in pappa delle capacità critiche che Cases insiste sulla necessità di una concezione del mondo, o, se vogliamo usare una metafora ormai stereotipa, di un "pensiero forte", a favore del quale invoca "un'amnistia generale". Attenzione: Cases sa benissimo che ogni visione del mondo ha limiti pesanti e talvolta tragici. Ciò non implica però affatto la rinuncia allo sforzo di interpretare unitariamente i.I mondo: una prospettiva salutarmente antitetica alla proliferazione dimissio 1aria di scritture deboli e pensieri flebili sedicenti aideologici. Naturalmente "il rischio di sbagliare c'è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell'accettazione universale". In questo impegno morale è logico eh' egli si opponga a chi (coineEco; ma io penso che altri meritino-ancor più quest'accusa) tende a fare della cultura una specie di grande gioco. È vero anche però, per dirla un po' rozzamente, che il pathos morale e intellettuale non impedisce a Cases (e a noi) di divertirsi parecchio. Basti pensare alla verve con cui infierisce per una trentina di pagine su Armando Plebe, personaggio emblematico dei nostri anni, prima quasi di sinistra poi fascista poi radicale, caso emblematico del trasformismo peculiare all'intellettuale moderno, padrone vero o mistificato di tecnologie culturali capaci di sedurre mediante un nebbione pseudo-scientifico e spesso semi-mistico di terminologie astruse, che nascondono una sostanziale indifferenza ai contenuti. Se Plebe si merita reprimende e sfottò che superano- il limite dell'insulto, in genere però il tono di Cases è iromco, secondo la lezione del grande Karl Kraus. Semmai all'ironia si aggiunge una vena originale di assurdo, davvero poco lukacsiana, che spesso dilata la battuta o la metafora fino a trasformarle in un piccolo racconto fantastico o per lo meno in una similitudine paradossale. Ad esempio: ,"l'articolo di Filippini sui Minima moralia era un campionario di fole tali che se l'autore fosse finito nell'inferno del Folengo, dove uno stuolo di barbieri cava ai letterati un dente per ogni bugia che hanno messo nei loro scritti, dovrebbe farsi fare dal dentista una protesi totale". Ci si potrebbe divertire parecchio a fare una piccola raccolta delle tecniche letterarie di Cases, dalle frequenti metafore comiche al gusto dell'abbassamento, con sobrie escursioni nella scatologia e occasionali ricorsi alla parolaccia (la "scorreggia" di Revel, i "testicoli scarichi" degli intellettuali, Karl Schmitt "figlio di puttana"); e poi ancora la citazione dis~orta (in genere delle parole di avversari), i finali con raccontino comico-parabolico. Per non parlare· del buon numero di testi che sono racconti senz'altro, con una vistosa predilezione per la pseudo-fantascjenza, culminante nella storia della demolizione finale delle Brigate Ross~. comandate nientemeno che da Norberto Bobbio, coadiuvato da Guido Quazza e da Barberi Squarotti (Il ballo dei sospetti). In realtà mi ero preparato un'analisi accuratissima, poi però me la sono tenuta per mè, perché temo che Cases possa cominciare a sfottermi, e·anche con ragione: infatti sono anch'io un "logotecnocrate", uno di quelli cioè che usa termini astrusissimi per analizzare i testi. Sì, potrei difendere le mie ragioni (forse qualcuna ce l'ho), o almeno garantire che non sono un apostata spergiuro come Plebe. Ma forse è meglio evitare pericoli. Qua e là Cases si domanda "come fa un giovane" abarcamenarsi in tanta confusione culturale: be', non lo so. Forse un giovane non fa, e basta. Anzi no: fa troppo, Se già nel 1958 si notavano i poteri corruttori delle carriere accademiche e di quelle pubblicistiche, oggi basta possedere un diploma di scuola media per essere assaltati da direttori di rivista assatanati in cerca di qualcuno che sappia almeno un po' d'italiano e possa recensire (tempo quattordici minuti) gli ultimi libri di Popper e della Mafai. Se il racconto che dà il titolo al libro, Il boom di Rosee/lino, sottolineava, già trent'anni fa, l' "impossibilità di far critica nell'era dei mass media", che starà succedendo oggi, quando siamo sepolti da una massa di miliardi di messaggi, che noi stessi contribuiamo a incrementare? Quasi quasi si potrebbe parafrasare il violento epigramma di Kraus: "perché una volta si è masturbato/quello scrive un'autobiografia"; oggi succede che, "perché una volta ha letto un libro/quello ti scrive una recensione". Be', io almeno i libri di Cases li ho letti tutti un paio di volte: e, se mi sono azzardato a scrivere, è solo perché mi piacerebbe che li leggesse qualcun altro. Ma adesso starò zitto. Come Calvino viaggiò in Urss senza vedere Stalin Domenico Scarpa· Tra febbraio e marzo del 1952 "l'Unità" pubblicò 21 puntate del Taccuino di un viaggio in Urss di Italo Calvino; un altro pezzo, Una giornata nel Caucaso, uscì su "Rinascita" di marzo. L'unico articolo in cui '.'si vede Stalin" (Ricordo del 7 novembre 1951 a Mosca -La piazza invasa dai fiori nella città bianca di neve) fu destinato a "l'Unità" del 7 novembre successivo, 35°.anniversario della rivoluzione: coronamento celebrativo e insieme negazione degli articoli precedenti. (1) Dopo anni in cui antichi coristi dello stalinismo si sono sottoposti a faticose contorsioni concettuali per· stornare questa parpla dalla propria persona, è educativo vedere come Calvino inauguri il suo bilancio del 1979 (un lungo articolo, del 16 dicembre, dal titolo Son.ostato stalinista anch'io?, che apre significativamente la sua collaborazione a "la Repubblica") con questa frase: "Se voglio riuscire a capire e a far capire ciò che pensavo allora (...) è meglio che cominci col dire: 'Sì, sono stato stalinista' e poi cerchi di vedere più chiaro cosa poteva voler dire". Calvino giunge quasi a rivendicare la sua immagine di allora, perché "tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori". Il partigiano Italo Calvino divenne 20 comunista nel 1944, dopo aver. tacitato con perplessità la simpatia adolescenziale per l'anarchismo, dovuta anche a una reazione contro il proprio tormentato humus e istinto di borghese (era figlio di proprietari terrieri, entrambi botanici di fama internazionale). Solo dopo la Liberazione, la lettura di Stato e rivoluzione di Lenin con la "prospettiva del 'deperimento dello Stato' val se ad assorbire nell'ideologia comunista le mie originali aspirazioni anarchiche,. antistatali e anticentralizzatrici". (2) Nel Pci la figura più enigmatica gli risultò proprio il Togliatti legalitario e imperturbabile, "doccia scozzese" per "noi figli dell' apocalisse". (3) Comunque, la militanza di Pavese e Vittorini faceva credere di poter accordare senza attriti le scelte politiche con quelle letterarie: subito dopo la Liberazio11e per un paio d'anni - è Calvino stesso a ricordarlo - il Pci non ebbe una linea culturale definita ed eterodiretta, si respirava un'aria "majakovskiana". Le difficoltà cominciarono nel 1947, con l'attacco della "Pravda" a Picasso, poi s'impose Zdanov. Calvino ne approfittò dando voce a un anticonformistico "bisogno di sapere Croce come di sapere Gobetti c9me di sapere Gramsci; di sapere Mauriac c01"!1edi sapere Gide come di sapere Aragon. Poi analizzare,
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