Linea d'ombra - anno VIII - n. 52 - settembre 1990

CONFRONTI 11·Kitsch .secondo Hermann Broch Ovvero: del porco nell'arte Paolo Giovannetti 11concetto di Kitsch, così aereo e vagante, è di quelli che . suscitano una certa diffidenza e che- almeno a me sembra - andrebbero impiegati con parecchia circospezione. Come tutte le nozioni-fisarmonica, o nozioni~ombrello che dir si voglia, si espone infatti agli usi più paradossali ed eccrntrici, facilmente piegabili agli umori polemici del momento. E forse sufficiente· pensare alla traduzione italiana maggiormente autorizzata (quella comunque che in noi quasi automaticamente risuona quando sentiamo parlare di Kitsch), vale il dire "cattivo gusto": un' elc-. mentarissima dialettica dovrebbe fargli corrispondere qualcosa come "buon gusto", che per li rami delle associazioni semantiche materializza spettri quali "buone maniere", "bon ton", ovvero - nella migliore delle ipotesi - le rinascimentali "sprezzatore". Il problema, voglio dire, è che quando si evoca il gusto, buono o cattivo che sia, si finisce inevitabilmente per sconfinare nella soggettività più incontrollata, che però ben presto si rovescia nella ferrea òggettività dei rapporti sociali: nel sistema delle mode, •delle convenzioni più o meno snobistiche. E così, alla mia generazione, è capitato di avere appreso una definizione di Kitsch ragionevole, troppo ragionevole, proprio sulle pagine di un pen- · satore che, successivamente metamorfosatosi in narratore di successo, ci ha offerto non pochi esempi di un Kitsch d'autore perfettamente attrezzato di tutti gli ammiccamenti, di tutti gli effetti di maniera da cui - secondo il pensatore in questione - avremmo dovuto a suo tempo prendere le distanze, in nome di una disinteressata contemplazione delle forme. E il peggio è forse che a quasi nessuno I{ nome della rosa è sembrata opera di cattivo gusto. Anzi. Ma, appunto, ci sono cascato anch'io: cosa sia il peccato di Kitsch non si sa; e proprio per questo è facile rinfacciarlo a chi non ci è simpptico. Merito non secondario del volumetto Il Kitsch di ,Hermann Broch (traduzione di Roberta Malagoli e Saverio Vertone, Einaudi, pp. 201,L. 18.000)èpropriolasuacapacitàdidarci una definizione rigorosa del Kitsch, salvandolo dalle secche del formalismo approssimativo e del becero soggettivismo, per ricondurlo al sicuro porto del pensiero estetico. A dire il vero, la sintetica formulazione che ci viene più volte proposta può apparire un po' sconcertante: "nell'ambito dell'arte, il Kitsch è il male in sé" (p. 69). Una boutade, l'ennesima scorciatoia metaforica? No, il fatto è che per Broch il giudizio estetico non può mai essere disgiunto da considerazioni di natura etica, e perciò ilpiù radicale disvalore artistico è anche, contemporaneamente, un'azione riprovevole; un male, appunto. Vediamo. L'arte, ci dice l'auto're, altro non è che una delle tante "immagini del mondo" elaborate dall'umanità, e, come tale, si fonda su un sistema di valori che corrispondono alla totalità delle azioni compiute dagli aderenti al sistema (artistico, nella fattispecie). Attraverso questo insieme di "atti di formazione" che mettono capo all'opera, l'uomo tende a un "estremo, irrazionale obiettivo di valore" (p. 137), postulato a priori dal s'istema e anzi giustificazione profonda dello stesso: un obiettivo che prende il nome di "bellezza" o anche di "totalità". Ora, se il fine dell'arte è per definizione estetico, il processo che le sta alle spalle è invece di natura etica. Le due sfere sono di fatto strettamente intrecciate, Hc,rnann B,och .. e non solo nell'arte: ogni azione umana, etica per definizione produce risultati estetici, anche se in campi diversi; che possonc andare dall'economia alla politica, fino ad ambiti apparentemente periferici, éome il mondo militare o addirittura lo sport. • A questo punto scatta la parte forse più ardua e oscura m, anche-direi - più interessante del pensiero estetico brochiano. Perché, se è vero che l'obiettivo cui l'arte inevitabilemente tende è qualcosa che possiamo chiamare il "bello", è parimenti certe che nori deve essere la bellezza a guidare l'artista nel momento in cui opera, bensì un imperativo-per l'appunto-etico. Paradigmatico per Broch è l'esempio dell'artista medievale, che sapeva benissimo di lavorare in funzione di una finalità estrema - Dio -, laqualegiustificavaemotivava tutti i suoi comportamenti; ma egli "eseguiva il proprio lavoro per amore di questo lavoro e solo con la coda dell'occhio inseguiva il fine lontano che indicava la direzione etica all'azione terrena" (p. BO). Certo, all'uomo del Medioev.o il mondo si presentava come una totalità integrata in cui ogni valore, ogni azione erano contestualizzati in modo quasi automatico entro il sistema; mentre lo stesso non si può dire per l'umanità post-rinascimentale, e a maggior ragione per il cittadino asburgico o europeo del 1933 (circa metà del volume è infatti composta in quel crucialissimo anno). Ma anche nell'attuale quadro di anarchia - quella· stessa che causa l'autonomia delle "immagini del mondo", sempre più frantumate e in reciproco conflitto-, vero artista è colui chy cerca di fare un buon lavoro, e non un bel lavoro. La situazione è in effetti paradossale: "Il momento estetico, come espressione del superiore fine di valore di un sistema, entra infatti nel risultato dell'azione etica soltanto come automatico effetto secondario" (p. 131); un effetto, insomma, che viene sprigionato dal prodotto artistico, ma che non può essere perseguito in quanto tale. 15

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