Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

CINQUE PEZZI FACILI Guido Accascina Giulio Per un lunghissimo periodo della mia vita non sono riuscito a capire da dove venissero, e tanto meno a difendermene a tempo. Superavano lo spazio infinito che mi separava dall'orizzonte con mezzi di cui misuravo con dolore l'efficacia, ma che non mi era dato conoscere. Spesso i miei interessi mi portavano in luoghi fino a quel momento sicuramente sconosciuti ma, inevitabilmente, nel momento in cui con più piacere sentivo di essermene liberato, mi raggiungeva la loro voce. Ho naturalmente provato a nascondermi in posti inaccessibili ai più, a volte anche pericolosi, e sempre ogni astuzia, ogni accortezza, non facevano che ritardare di un minuscolo spazio di tempo l'incomprensibile suono con cui esprimono la loro soddisfazione per avermi trovato. Ciò che mi lascia più perplesso è il loro atteggiamento dopo la cattura: mi portano nel loro spazio e subito, con la stessa rapidità con cui mi hanno trovato, si dimenticano di me. Rumoreggiano e compiono strani riti attorno a delle costruzioni da cui sembrano morbosamente attratti, forse per via delle luci che emanano con costanza, èd è stato in una di queste occasioni che mi sono accorto di poter diventare invisibile. Da un po' di tempo le loro continue incursioni mi stanno rovinando quasi ogni piacere. La mia capacità di concentrazione, di cui sono sempre stato orgoglioso sta cedendo il passo a un sentimento di paura diffusa, che mi impedisce sul nascere qualsiasi attività. Ho provato a difendermi cercando di coinvolgerli in qualche modo, spiegandomi a gesti, compiendo ogni tentativo per interessarli, ma riescono a malapena ad imitarmi per qualche minuto. Non capiscono la logica dei miei gesti, non riescono a riflettere e presto si mostrano annoiati e mi catturano, facendomi perdere del tempo prezioso ed obbligandomi a lasciare a metà lavori che debbono invece essere eseguiti senza interruzioni o sospensioni di sorta. Vorrei interrogarli sui moti vi che li spingono con tanta aggressività ad intere~sarsi a me, vorrei renderli coscienti dell 'ambiguità del loro comportamento, ma dovrei istruirli sull'uso di un linguaggio sintetico come il mio, e dubito che imparerebbero qualcosa in tempi ammissibili. Non mi resta che imparare il loro, ma devo confessare che mi annoia mortalmente scoprire il significato di suoni come: "basta giocare, Giulio, vieni a mangiare" o "caro, il bambino si è nascosto di nuovo, pensaci tu',._ Eppure so che non c'è altra soluzione. Alberto Mi cercano e mi danno da mangiare due volte al giorno, questo è vero, ed ogni volta mi danno anche una carezza, anche questo è vero. Ma per il resto del tempo è come se non esistessi. Mi usano come un pezzo di arredamento che serve solo ogni tanto e ogni tanto i bambini mi passano sopra, o mi tirano per un'appendice. Prima contavo molto di più, e quando facevo sentire la mia voce tutte le conversazioni si fermavano, e tutti si giravano verso di me. · Adesso nessuno mi chiama più, nonostante io senta che dentro di me non è cambiato nulla, ed ho la stessa voglia di giocare che ho sempre avuto. Tra l'altro potrei spiegargli un mucchio di giochi, ho molta più esperienza di loro. E poi mi piace stare in compagnia, non ho perso il piacere di partecipare alla vita di una famiglia, di contare qualcosa. Quello che non capiscono è che la perdita della forza fisica non coincide necessariamente con la perdita dei sentimenti e delle emozioni, e se i miei muscoli facciali non riescono più a rendere all'esterno quello che sento non per questo sto vegetando. Sento che se potessero permetterselo, se su di loro non agissero dei forti condizionamenti morali, mi sbatterebbero via senza tanti riguardi dimenticandosi di me un attimo dopo. Negli ultimi tempi i loro approcci si limitano a dei brevi comandi o a dei brevi cenni imperativi e mi chiedo sempre più spesso che fine ha fatto l'affetto con cui mi circondavano quando mi hanno preso in casa, neanche tanto tempo fa. L'unico modo in cui riescono ad utilizzarmi è come guardiano dei bambini, quando hanno un impegno di sera e hanno paura che possa succedere qualcosa ai loro piccoli, ed io mi guadagno i pasti così, sdraiandomi su un divano e aspettando tranquillo il loro ritorno, mentre i bambini dormono. · Ogni mattina mi portano fuori, per un giro dell'isolato dove abitano, ma non mi lasciano mai il tempo di conoscere qualcuno dei miei simili, che sono tanti e mi sembrano più felici di me, e possono passare intere giornate in compagnia nel giardinetto tra le case. E poi non sopporto che mi chiamino "il nonno". Ogni tanto mi piacerebbe che qualcu o si ricordasse che mi chiamo Alberto. Luigi Non è che sia geloso di Fabio e non è vero che non lo sopporto perché lui è il primogenito e ha già quattro anni. È per via della mamma, che secondo me si occupa soltanto di lui e non le rimane un briciolo di affetto per me. I primogeniti sono insopportabili. Pensano che il mondo sia stato creato nel momento della loro nascita e pensano che il mondo esista soltanto quando si degnano di posarvi lo sguardo. E non lo dico senza motivo: Fabio si rivolge a me soltanto quando ha bisogno di qualcuno per i suoi giochi, e in questi casi mi cuce addosso una parte, indifferente che mi si adatti o meno. Per il resto è come se non esistessi: posso essere più o meno contento, posso essere più o meno affettuoso, posso essere più o meno desideroso di compagnia. La sua indifferenza trasforma me ed il mondo in statue di pietra senza vita. L'unico mio punto di riferimento è Stella. È la più piccola della casa ed è l'unica sempre di buon umore. È capace di giocare con me per ore, e ci fermiamo soltanto quando uno dei due è stanco. 93

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