STORIE/CARVER pigiama sullo specchio quando s'appannava. "Io non vedo niente" annunciò lei. "Be', però io lo sento." Si fermò un attimo, spense la luce e comincjò a far scorrere l'acqua nella vasca. "Al diavolo! Lascia perdere. Devo prepararmi per andare a lavorare." Decise di scendere in città a piedi, tanto non gli andava di far colazione ed era in anticipo. Nessuno aveva le chiavi oltre al padrone e se arrivava al negozio troppo presto gli toccava aspettare. Camminò fino ali' angolo vuoto dove di solito prendeva l'autobus. Un cane che aveva già visto gironzolare da quelle parti era lì con la zampetta piegata che pisciava sul cartello della fermata. "Ohé" gridò. Il cane smise di pisciare e gli corse incontro. Un altro cane che non conosceva arrivò trotterellando, annusò il cartello e ci pisciò addosso. Dorata e fumante, l'orina scorreva sul marciapiedi. "Ohé, levati un po' di lì!" Il cane schizzò qualche residua goccia, poi, insieme all'altro, attraversarono la strada. Sembrava quasi che stessero ridendo. Intanto lui spingeva il pelo avanti e indietro in mezzo ai denti. "Bella giornata, non vi pare, eh?" chiese il padrone. Aprì la porta e tirò su le tendine. · Tutti, tranne Davide, si voltarono di nuovo a guardare fuori e annuirono, sorridendo. "Certo, capo, proprio una bellissima giornata," disse Leo Kurbitz. "Troppo bella per stare a lavorare," aggiunse la signora Barton, mettendosi a ridere con gli altri. "E già, proprio così. Hai detto bene," disse il padrone. Poi, fischiettando e facendo tintinnare le chiavi, salì di sopra per aprire il reparto Abbigliamento per ragazzi. Più tardi, quando Dave era appena risalito dallo scantinato e stava concedendosi una piccola pausa nell'atrio per fumarsi una sigaretta, passò di lì il padrone; si era messo una camicia bianca a maniche corte. "Che caldo oggi, eh Dave?" "E sì." Non aveva mai fattò caso quanto fossero pelose le braccia del padrone. Rimase seduto a stuzzicarsi i denti, lo sguardo fisso ai fitti ciuffi di peli neri che crescevano tra le dita del padrone. · "Scusi, capo, mi chiedevo ... se non è possibile, non fa niente, è chiaro, ma se fosse possibile, senza mettere in imbarazzo nessuno, cioè ... vorrei andarmene a casa. Non mi sento tanto bene." "Mmm ... Be', ce la possiamo fare lo stesso, è chiaro. Il problema non è questo, è chiaro." Prese una lunga sorsata dalla bibita che teneva in mano, poi lo squadrò un po'. "Be', allora non c'è problema, capo. Cercherò di tener duro. Chiedevo così, tante volte ..." "No, no, va bene, non c'è problema. Va' pure a casa. Magari chiamami stasera, fammi sapere come ti senti." Lanciò un'occhiata all'orologio e si scolò la bibita. "Le dieci e venti, diciamo dieci e trenta. Va' pure a casa, diciamo che hai staccato alle dieci e mezza." Gli diede una leggera pacca sulla spalla e annuì un paio di volte. 88 In strada Dave si allentò il colletto e cominciò a camminare. Era una strana sensazione, andarsene in giro per la città con un pelo in bocca. Continuava a toccarlo con la lingua. Non guardava neanche in faccia le persone che incontrava. Dopo un po' le ascelle cominciarono a sudargli e sentiva l'umido che gli si condensava tra i peli e veniva assorbito dalla maglietta. Ogni tanto si fermava davanti a qualche vetrina e fissava il cristallo aprendo e chiudendo la bocca, rovistandoci dentro con un dito. Fece la strada più lunga per tornare a casa, quella che passava per i giardini del Lions Club, dove si mise a guardare i bambini che sguazzavano nella piccola piscina, poi diede quindici centesimi a una vecchietta per eptrare in un mini zoo e guardare gli uccelli e gli altri animali. A un certo punto, dopo che era rimasto un pezzo a fissare un mostruoso lucertolone dell'Amazzonia attraverso i cristalli, la creatura aprì un occhio e si mise a guardarlo. Si ritrasse subito dalla vetrina e continuò a girare per i giardini fino ali 'ora di tornare a casa. Non aveva molta fame e a cena bevve solo del caffé. Dopo pochi sorsi ricominciò ad arrotolare la lingua attorno al pelo. Si alzò di scatto dalla tavola. "Tesoro, cosa c'è?" gli chiese Marian. "Dove vai?" "Mi sa che mi metto a letto. Non mi sento tanto bene." Lei lo seguì in camera da letto e l'osservò mentre si spogliava. "Vuoi che ti prepari qualcosa? Magari, chiamiamo il dottore. Vorrei tanto sapere che ti succede." "No, no, tutto a posto. Fra poco starò meglio." Si tirò le coperte fin sulle spalle e si voltò dall'altra parte, chiudendo gli occhi. La moglie chiuse le tende. "Sistemo un attimo la cucina, poi ritorno." Appena s'era allungato, già si sentiva meglio. Si toccò la faccia, pensando di avere qualche linea di febbre. Si passò la lingua sulle labbra secche e poi ancora sull'estremità libera del pelo. Fu scosso da un brivido. Dopo pochi minuti s'appisolò ma ad un tratto si svegliò e si ricordò che doveva chiamare il padrone. Si alzò lentamente dal letto e andò in cucina. Marian era al lavandino che asciugava i piatti. "Tesoro? credevo ti fossi addormentato." Gli lanciò un'occhiata. "Ti senti meglio?" Annuì, prese su il telefono e chiamò il centralino. Mentre parlava sentiva come un cattivo sapore in bocca. "Pronto? Sì; sì, sto un po' meglio, credo. Volevo solo dirle che domani verrò a lavorare. Sì. Alle otto e mezza, spaccate." Dopo che se ne fu tornato a letto, si ripassò la lingua sui denti. Magari era solo una cosa a cui doveva abituarsi. Ma non ne era tanto sicuro. Poco prima di addormentarsi, era quasi riuscito a non pensarci più. Gli venne in mente il caldo che aveva fatto quel giorno e i bambini che sguazzavano n'ell'acqua ... come cantavano gli uccelli quella mattina. Ma a un certo punto, la notte, lanciò un urlo e si svegliò tutto sudato, gli pareva di soffocare. No, no, continuava a ripetere, scalciando le coperte. La moglie si spaventò, perché non riusciva a capire cosa gli stava succedendo.
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