SAGGIÌ'ACHEBE appassionai;per esempio, a quegli aspetti di storia ecclesiastica che si potevano ricavare da The West African Churchman' s Pamphlet, un librettoterribileche prescrivevainterminabililetturebiblichemattina e sera.Ma era una vera e propriaminiera d'oro per il tipodi informazionichedesideravoraccoglierea quei tempi. Riportava la data di consacrazionedi praticamentetutti i vescovi anglicani che avevano servito nell'Africa occidentale; e, cosa ancor più interessante, le loro date di morte. Molti di loro non duravano più di tanto. Ricordo un caso patetico (il nome l'ho dimenticato)che arrivòaLago~subito dopo la sua consacrazione nellacattedraledi St.Paul, echemorì inpochi giorni,seguitodalla moglie di lì a una o due settimane. Erano i giorni in cui l'Africa occidentaleera per davverola tombadell'uomo bianco, i giorni in _cuifurono scritti quei versi che allora ignoravo:"Golfo di Benin! Golfodi Benin!/ Da cui wchi escono sebbenemoltientrino!"Ma l'informazionepiù affascinanteche ricavaidal Pamphlet, come lo chiamavano in famiglia, fu questa annotazione enigmatica: "Agostino,Vescovodi Ippona,mortonel430."Avevaun'essenza ambigua ed eterna, una sorta di stranezza accattivante che ho sempre trovato commovente. Non avevo idea che sarei diventato scrittore, anche perché, fino a una certa età, ignorai completamente l'esistenza di tali creature.Le fiabe che mi raccontavano mia madre e mia sorella maggiore avevano la qualità immemorabile del cielo e delle forestee dei fiumi. Più tardi, quando venni a sapere che le storie europee che leggevo erano scritte da persone conosciute, non ci feci caso. Si trattava di quegli stessi europei che facevano tutte quelle altre cose meravigliose, come le automobili. Noi non c'entravamo per niente. Non facevamo niente che non fosse primitivo e paganeggiante. Il movimento nazicmalistanell'Africa occidentalebritannica dopo la II Guerra Mondiale determinò una rivoluzione mentale che cominciò a riconciliarcicon noi stessi. All'improvviso sembrò che anche noi potessimo avere una storia da raccontare. Il "RuleBritannia"al cui ritmomarciavamocosì inconsapevolmente ogni 24 maggio, Festa dell'Impero, adesso ci s'inceppava in gola. All'università lessi alcuni romanzi sconcertanti sull'Africa (compresoil lodatissimo Mister Johnson di Joyce Cary) e decisi che la storia che dovevamo raccontare non la poteva raccontare nessunaltro al posto nostro,per quanto dotatoo ben intenzionato. Sebbenea suo tempo nonmi sia messo coscientementeali' opera inquel modo solenne,ora so che il mioprimo libro, Il crollo, fu un atto di riconciliazione col mio passato, il ritorno rituale e l'omaggio di un figliol prodigo. Ma in Africa le cose accadono a gran velocità. Avevo appena cominciato a crogiolarmi al sole della rappacificazionequandoapparve un'altra nuvola,un nuovo allontanamento.Era arrivatal'indipendenza politica. Il leadernazionalistadi ieri (con cui non era stato troppo difficile far causa comune) si era trasformato nel non altrettanto affascinante dirigente di partito. E allora le cose cominciarono ad accadere sul serio. Il dirigente di partito fu cacciato dai giovani e brillanti militari, nuovi idoli del popolo. Ma il dirigente di partito sa aspettare, conosce a memoria il consiglio che Mamma Cimice diede ai suoi piccoli quando l'infastidito proprietario del letto versò su di loro acqua bollente: "Abbiate pazienza," disse, "per68 ché ciò che è caldoalla fine sarà freddo."Ciò chebrilla può anche perdere la propria lucentezza, come i giovani militari. Si sente dire che il dirigentedi partito stagià conducendouna campagna diffamatoria: "Noi ci avete già visti mangiare," dice, "adesso vedete loro che mangiano. Quale dei due preferite?" E alla gente si confondonole idee. In unbaretto indefinibiledi Amherst [sededella Universityof Massachussetts dove Achebe ha insegnato per qualche tempo, N.d. T.] dove ogni tantomi fermo per un hamburger,sono appese alle pareti alcune iscrizioni poco divertenti che rappresentano il dialogounilateralefraladirezionee ilpersonaledi servizio.Lapiù squallida di tutte dice, poeticamente: "Tenetevi caro il vostro padrone,/ Il prossimo può essere più coglione." Il guaio degli scrittori è che spesso si rifiutano di vivere secondo tale criterio. LA VERITA' DELLA FINZIONE Picasso una volta affermò che tutta l'arte era falsa. Poiché l'Occidente gli riconosceva qualcosa come il 90% della sua produzione artistica del ventesimo secolo, senza dubbio Picasso si sentivaliberodi dire tuttociò che gli passavaper la testa sull'argomento!Credo tuttaviache l'artista non facessealtro che richiamarel'attenzione, allamanieraesageratadi veggentie profeti, sul fatto rilevante ma del tutto naturale che l'arte non può essere una copia esatta della vita; e quindi, in quel senso specifico, n.onpuò essere "vera". E se non è vera, deve per forza essere falsa! Ma se l'arte può prescindere dall'esattezza limitante della verità letterale, essa in cambio acquisisce incalcolabili poteri di persuasionenei confrontidell'immaginazione. Il che spiegacome mai una semplice tela dello stessoPicasso, Guernica, sia riuscita a terrorizzare l'apparato statale del fascismo spagnolo. Infatti, come poteva un quadro ispirare tanta soggezionese non concordando inqualchemodocon la realtà riconoscibileo intrattenendo con essa un rapporto inquietante? Se non in quanto rivelava, per dirla in altre parole, una certa verità? Nei suoi Versi in memoria, Matthew Amold mise in bocca a Goethe, poeta e filosofo, queste parole: "La fine è ovunque / L'Arte possiede ancoralaverità,/ rifugiateviin essa." (The Works of MatthewArnold, voi. I, AMS Press, NewYork 1970, p. 251). In un contesto così grandioso e apocalittico l'arte e qualsivoglia verità si rivendichi ad essa sono destinate a farsi eccessivamente remote. In realtà l'arte è lo sforzo costante dell'uomo di creare per se stesso un ordine di realtà diverso da quello che gli viene dato; un'aspirazione a procurarsi un'ulteriore presa sull'esistenza per mezzo della sua immaginazione. Per motivi pratici, mi limiterò a unasoladelle formecheeglihamodellatosullasuaesperienzacon il linguaggio: l'arte della finzione. Nel suo splendido saggio Thé Sense of an Ending, Frank Kermode definisce la finzione semplicemente come "qualcosa che sappiamonon esistere,ma che ci aiuta a cogliere il senso del mondo e a muoverci in esso". (OUP, New York 1967). Questa definizione pratica ci predispone non a uno, bensì a più tipi di finzione.Lo stesso Kermode si sofferma su alcuni di essi, come per esempiola finzionematematicadi "infinitopiù uno", che non
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