Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

SAGGI/GIOV ANNEnl percorso. Al punto che si potrebbe anche leggere il volume come un racconto di formazione, la drammatica narrazione di un pensiero e di un'espedenza politica che sbocca in una dimensione radicalm nte nuova rispetto ai luoghi da cui era partita. . E infatti, all'inizio c'è un viaggio. Nell'agosto 1932 Simone Weil, ventitreenne insegnante di filosofia e militante sindacalista rivoluzionaria, decide di andare in Germania, per poterne seguire da vicino la crisi. Le ipotesi interpretative che si porta dietro sono quelle accennate: non si dà una terza via tra socialismo e nazionalsocialismo, tra rivoluzione e dittatura fascista. E in questo senso si spiega molto bene il concentrarsi della sua analisi soprattutto sul Partito comunista tedesco, sulle sue parole d'ordine e sulle sue alleanze. Ma la verità del quadro storico-politico emerge in modo più efficace quando le strategie delle principali forze in campo vengono messe a reciproco confronto. Il bisturi di Simone Weil incide profondo: alla "ragionevole" socialdemocrazia, in balia dello stato e incapace di distinguersi da esso, corrisponde un nazionalsocialismo composto di "rivoluzionari irresponsabili", attenti a sbandierare (ea fomentare) l'antagonismo proletario sotto gli occhi della borghesia, per ottenerne l'appoggio; mentre l'accanimento contro il cosiddetto "socialfascismo" induce paradossalmente (ma non troppo) il Partito comunista a individuare margini d'intesa con gli hitleriani, salvo poi esserne scaricato al momento della resa dei conti di fronte alle classi dominanti. Insomma, un'analoga concezione dello stato dirigistico accomuna socialdemocratici e nazisti, e la rivoluzione favoleggiata da questi ultimi (soprattutto dalla base) finisce per confondersi con quella voluta dai comunisti, che non sanno affatto dare un senso operativo al ribellismo dei propri militanti, per lo più operai disoccupati e perciò tanto meno coscienti. E dunque, se per la rivoluzionaria Weil gli errori commessi dalla socialdemocrazia sono a priori scontati, inaccettabile è la linea di un'organizzazione comunista che letteralmente si suicida di fronte allo strapotere di Hitler. Il balletto, ovvero la danza macabra, delle alleanze e delle convergenze temporanee fra i tre partiti viene descritta in modo implacabile da Simone Weil, che considera di fatto inevitabile il trionfo dei più spregiudicati nazisti: anche se in lei permane fino all'ultimo la speranza che il tanto sospirato "fronte unico" tra socialdemocratici e comunisti possa prima o poi realizzarsi. Nei numerosi articoli scritti dopo l'agosto 1932 la descrizione della crisi tedesca si viene via via arricchendo di una consapevoc lezza sempre più articolata: e cioè che il fallimento del Partito comunista dipende in primo luogo dalla struttura verticistica e burocratica dell'organizzazione, e soprattutto dalla sua piatta subordinazione al Komintern. L'imprigionamento, la tortura, la morte, la lotta anche eroica dei militanti comunisti, dopo la presa del potere di Hitler, non devono far dimenticare le responsabilità del Partito comunista, responsabilità poi ribadite dall'Urss, che sembra non far nulla per proteggere i militanti comunisti in lotta contro il fascismo. Ora, quello che stupisce nell'analisi di Simone Weil è la sicurezza con cui vengono enunciate verità così scomode, in apparenza addirittura disfattiste; e per di più in tempo reale, mentre gli eventi stanno ancora evolvendo. La sua lucidità politica è pressoché assoluta, tanto che le conclusioni cui perviene saranno confermate nelle loro linee essenziali dagli studi della successiva so storiografia L'interpretazione del fascismo tradizionalmente operata dal Partito comunista viene frontalmente respinta, e anzi nel nazionalsocialismo si individuano numerose specificità peculiari, in quanto movimento di massa che sa manipolare un consenso anche popolare, e che in definitiva sa muoversi con cinismo e scaltrezza a metà strada fra il capitalismo delle grandi industrie e i rottami d'una sinistra sempre più impotente. E questo ha per l'autrice (e per noi) un significato tanto più tragico e assurdo in quanto avviene in uno stato la cui classe lavoratrice è "la più matura, la più disciplinata, la più colta del mondo", e dove fino all'ultimo la base di partiti così ottusamente condotti ha saputo mantenere una dignità morale ammirevole. Ma se c'è un termine che Simone Weil non userebbe mai è proprio la parola "assurdo". Non basta additare le contraddizioni della socialdemocrazia e del Partito comunista per spiegare la sconfitta tedesca (e anzi né di sconfitta né di disfatta in senso proprio si dovrebbe parlare: "una disfatta suppone una lotta preliminare. C'è stato il crollo", in assenza di ogni azione efficace). Adesso si tratta di rimettere in discussione i postulati stessi dell' analisi. Il punto di partenza, ricordiamolo, era la necessità oggettiva della rivoluzione, come unica alternativa al fascismo. Nel saggio Prospettive dell'agosto 1933 (e siamo, si badi, ad appena un anno dall'inizio della "storia") la macchina argomentativa di Simone Weil compie il salto in avanti forse decisivo, attraverso una serie impressionante di negazioni che fanno piazza pulita di ogni illusione. Capitalismo, fascismo, socialismo sovietico si presentano accomunati da un denominatore: "l'oppressione esercitata in nome della funzione", la compiuta subordinazione del lavoratore a un sistema organizzativo ("burocratico", come lo definisce l'autrice) che distrugge ogni autonomia dell'individuo. L'analisi marxiana aveva in fondo previsto l'assolutizzazione dei rapporti produttivi, la sempre più ferrea separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, l'autonomia della macchina rispetto all'uomo. Ma ciò che nessun pensiero socialista aveva delineato è l'indipendenza di questi fenomeni dai regimi politici. Ogni compagine statale o produttiva che prevedeva l'esistenza d'una "casta burocratica" èdi per sé oppressiva: "non si vede come una forma di produzione fondata sulla subordinazione di quelli che eseguono a quelli che coordinano potrebbe non produrre automaticamente una struttura sociale definita dalla dittatura di una casta burocratica". Ovvio che questo sistema onnicomprensivo si presenti agli occhi di Simone Weil con le marche della tendenziale invincibilità, dell'impenetrabilità a ogni trasformazione. L'autrice non lo afferma ancora direttamente, ma ormai è chiaro che per lei la rivoluzione è impossibile: sia perché è assente una classe sociale che possa farsene carico (razionalizzazione tecnologica e disoccupazione indeboliscono infatti il proletariato, rendendolo sempre meno cosciente di sé), sia perché, appunto, qualsiasi radicale sommovimento finirebbe per riprodurre il dominio stesso contro cui era insorto. Un 'analisi, dunque, disperata nella sostanza, che però mantiene sempre la riserva dello slan€io etico e del rigore teorico. Solo che ora i due termini tendono pericolosamente a separarsi. Alla lotta non si può rinunciare ("L'unica questione è sapere se dobbiamo continuare o no a lottare; nel primo caso lotteremo con ardore come se la vittoria fosse sicura"), ma è anche vero che la preparazione teorica può richiedere un temporaneo distacco dall 'azione.

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