Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

SAGGI/CASES Al di fuori della Germania serribra che i poeti si trovino più a loro agio nelle soluzioni formali. E questo che rendeva insoddisfatto della propria disciplina l'anglista Franco Moretti, che è diventato . una transfuga in senso inverso, anche formalmente, poiché è passato alle letterature comparate. Contro il quietismo del modernismo letterario negli anni Ottanta egli scriveva nel 1984: "Per rendersi conto dell'entità del mutamento, basta pensare a ricerche pionieristiche come quelle di Benjamin e di Adorno. Per loro il testo 'frammentario' evocava l'immagine della melanconia.e del dolore, il pensiero di una speranza ormai mutila e indifesa; oggi la si associa ai più. ben spensierati concetti di detotalizzazione, libertà semantica, eterogeneità produttiva. Nella deliberata oscurità della letteratura moderna, Benjamin e Adorno vedevano il segno di una qualche minaccia; di questi tempi là si saluta invece gioiosamente come garanzia di un gioco interpretativo libero e . incontrollato. Per loro, infine, la figura chiave della letteratura del Novecento era Franz Kafka; oggi, altrettanto chiaramente, Kafka è stato rimpiazzato da James Joyce, la cui opera non è meno grande, ma certo assai meno perturbante e densa di interrogativi radicali." Mi sembra che la simpatia testimoniata da questo anglista per il grande significato dell'opera di Kafka e di suoi interpreti quali Benjamin e Adorno vadano condivisi in un'epoca in cui la ricerca del consenso o, come oggi si dice, dell'omologazione, riscuote successi prima impensabili, dando sostanzialmente ragione a chi già nel Settecento vedeva profilarsi l'avvento della macchina universale e intuiva anche il suo carattere distruttivo. La frattura tra intellettuali e società in Germania, spesso deplorata e recentemente denunziata a proposito del crollo senza resistenze degli ideali socialisti nella RDT, ha avuto però il vantaggio che molti intellettuali non si lasciarono coinvolgere dal conformismo, che più facilmente allettava là dove essi si sentivano più in armonia con gli altri cittadini. Ormai di poveri poeti e sognatori c'è carenza anche nella grassa Germania; il vecchio amico H.M. Enzensber- , ger mi ba dedicato in apertura del volume sulla lirica led.esca del novecento una bella poesia in cui si dice che "ancora sanguina la ferita del possibile". Pur ringraziandolo, mi domando di fronte all'articolo pubblicato su un numero recente di "Panorama", in cui si infierisce contro gli intellettuali colpevoli di voler impedire · che le cose vadano per il loro verso, che è quello giusto, se Enzensberger per avventura non deplori che quella ferita sia ancora aperta. Ma di fronte alla potenza dell 'omologàzione è difficile tirare la prima pietra: forse Enzensberger scrive certe cose per evitare il destino del povero Giinther, nel che egregiamente riesce, mentre con noi è disposto, come all'inizio di Brot und Wein di Holderlin, a vegliare la notte come gli amanti, aspettando che il fuoco divino ci spinga a uscire all'aperto. Ma anche se perdessimo Enzensberger, ci resta Johann Christian Giinther, e con lui vorrei chiudere, perché un 'ultima lezione giova concluderla con un'utopia, per quanto oggi la si metta al bando, e non con qualche profezia apocalittica. Alle visioni utopiche Giinthereraautorizzato dalla sua povertà ma anche dalla . sua familiarità con l'utopia religiosa. E l'utopia non può non avere tratti religiosi. Non lontano da questo edificio si legge la scritta: il cielo lo lasciamo ai passeri. Consapevole o meno, è una citazione da una nota poesia di Heine in cui si dice che vogliamo il paradiso in terra e il cielo lo lasciamo agli angeli e ai passeri. Ma il paradiso in terra è assai difficile da immaginare; quello in cielo è ancora più inverosimile, ma è più coerente. Come possiamo 38 infatti risolvere nella pura immanenza problemi come quello dei rapporti tra spirito e materia, tra natura e civiltà, tra necessità e legge morale? Il tentativo porta a contraddizioni insolubili. I più fieri ecologi non ci possono impedire di distruggere la natura, e se risparmiamo gli animali rechiamo offesa alle piante, che pare che in realtà non siano meno sensibili. Il romantico Adam Milller, in odio alla manifattura, vestiva di pelli d'animale portate direttamente sul corpo, ma che ne pensavano gli animali interessati? Goethe ha fatto recare le spoglie di Faust in un paradiso di maniera ma nemmeno in esso si può scindere del tutto la "geeinte Zwienatur", le due nature unite di Faust, materiale e spirituale, sicché, con versi che Fortini ha splendidamente tradotto e che ama citare (anche ultimamente a proposito della fabbrica di asbesto di cui doveva occuparsi Kafka), rimane un residuo terrestre che "anche fosse d'~sbesto/ non sarebbe puro". "solo l'amore eterno/ le potr~bbe disgiungere" (le due nature). E dunque solo in un orizzonte religioso che gli agnelli saranno allattati dalle tigri ircane, o forse anche·attraverso qualche manipolazione cromosica, ma questo è proprio il tipo di utopia che non vogliamo. In Giinther non troveremo adynata pagani bensì miracoli cristiani. La sua Trostaria, aria o piuttosto inno di consolazione, è infatti' un canto protestante sia nella forma (sestine a rima alterna, maschile e femminile, con i due ultimi versi a rima baciata, maschile, e i versi sono tetrapodie trocaiche, metro frequente negli inni luterani, tanto che uno di essi - "mitten wir im ·Leben sind" - è citato come esempio di ritmo trocaico nel Buch der teutschen Poeterey di Opitz del 1624), sia come tradizione, che magari partirà dall'innografia cristiana (questo lo saprà certamente Johann Drumbl) ma certamente ha due precedenti immediati in Georg Justus Schottelius e in Benjamin Schmolk, maestro di Giinther. Quando tenevo esercitazioni sui testi li ho letti tutti e tre, e mi pare che suscitassero un certo interesse. Qui mi accontenterò di Giinther, che certo è il più poeta dei tre, anche se questa è una poesia giovanile e il metro e l'argomento con le frequenti anafore portano con sé un certo tono ·martellante che corrisponde al mio ideale poetico ma non a quello di Fortini né a quello dei poeti del Novecento commentati in mio onore. Per implicito suggerimento della poesia di Schmolk, in cui l 'endlich (finalmente) anaforico alla fine viene quasi sostantivato · ("Endlich! o du schones WortJ Du kanst alles Kreutz versiissen ..."), come se corrispondesse a uno stato o a un potere magico, così avviene anche all'inizio e alla fine della poesia di Giinther. Sono cinque strofe, ne tradurrò rozzamente quattro, eliminando molti "endlich" che si possono sottintendere, e poi leggerò il testo tedesco. "Finalmente cesseremo di aspettare in eterno/ finalmente apparirà la consolazione/ verdeggia il mazzolino della speranza/ finalmente si cessa di piangere/ si spezza la brocca delle lacrime/ e la morte dice: Basti!/Finalmente l'acqua diventa vino/ giunge il momento buono/ crolla il carcere/ guarisce la più profonda ferita/ la schiavitù mette in libertà il prigioniero Giuseppe ... Finalmente il corso della nostra miseria/ volge al fine/, sorge un redentore/ che rovescia il giogo della servitù/ e quarant'anni/ avverano puntualmente la promessa./Finalmente l'aloe fiorisce/ la palma porta frutti/ scompaiono paura e sofferenza/ il dolore è annientato./ Finalmente si scorge la valle di gioia/ finalmente, finalmente giunge una buona volta." Molte grazie e buona utopia a tutti.

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