trattazione dei problemi della metrica tedesca a uso degli studenti italiani. Non posso quindi che rallegrarmi di aver trovato a Torino, sia come collaboratori che come studenti di Magistero, pochi o punti cavalieri e molte di quelle belle e sagge donne che l'Ariosto prediligeva. · Il nome appena rammentato di Ladislao Mittner mi richiama al dovere, cui ottemperò non l'Ariosto, sibbene Goethe, almeno per accenni, nella "Dedica" del Faust, forse ispirata a quel canto ariostesco, di ricordare dopo la fine della navigazione i nomi di coloro che l'hanno favorita senza poter essere qui tra noi: Mittner anzitutto, il maestro di tutta una generazione di germanisti; il mio maestro personale Carlo Grtinanger; Alessandro Pellegrini, mio predecessore a Pavia; Sergio Lupi,_maestro dei çolleghi di lettere Claudio Magris e Luigi Forte e delle colleghe torinesi; ma soprattutto i giovani amici che per età e virtù avrebbero avuto tutti i diritti di lasciarsi molto addietro la navicella della mia vita se la loro non fosse stata travolta da un destino crudele. Penso a Mazzino Montinari, a Giorgio Sichel, a Furio Jesi, a Ferruccio Masini e ad altri immaturamente scomparsi. Il compassato tono ·accademico con cui li evoco serve a celare la commozione che mi afferra al loro ricordo. È questa del resto talvolta la funzione della screditata toga accademica e del non meno screditato tono paludato, poiché contrariamente alle opinioni correnti anche i professori sono spesso esseri umani. Più difficile mi riesce celare il piede biforcuto passando a trattare l'argomento annunciato, poiché già il titolo tradisce visibilmente l'ironia. La tradisce doppiamente: nella forma, poiché l'insigne germanista genovese Giovanni Angelo Alfero, rendendo in italiano il titolo della prolusione tenuta da Schiller all'Università di Jena Was heisst und zu welchem Ende studiert man Universalgeschichte? con Che cosa sia e a qual fine si studi storia universale, non solo manteneva l'omissione dell'articolo, normale in tedesco ma a mio parere illegittima in italiano, ma usava quel congiuntivo latineggiante nell'intitolqi;ione che sembra difficilmente sopportabile perfino a un passatista come me. Del resto l'esempio più celebre di questo uso resta il famoso volumetto Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia di Ruggero Bonghi, di cui si disse che dava la risposta già nel titolo, grazie appunto a quel congiuntivo sentito già come obsoleto in quel tempo (1855). Ma l'ironia sta anche nel significato del titolo, che presuppone certezze scientifiche e didattiche in cui oggi stenteremmo assai a sperare. Schiller tenne le due conferenze, poi riunite in una, il 26 e il 27 maggio 1789, dunque quasi esattamente 201 anni fa. r Non c'è bisogno di ricortlare quale avvenimento fosse alle porte, tale da segnare l'inizio di un nuovo capitolo della storia universale, anche se oggi si pre- ' tende che ne andrebbe espunto come quello che sarebbe servito da freno anziché da stimolo al progresso civile. SAGGI/CASES Schiller non poteva prevedere tale avvenimento, ma certo il suo discorso è pervaso da un pathos ottimistico che accetta pienamente le più sfrenate speranze illuministiche, tanto che ripubblicando la prolusione nel 1792, cioè nello stesso anno in cui "le Sieur Gilles" (come veniva chiamato nel documento) era stato nominato cittadino onorario della Repubblica Francese, egli dovette attenuare qualche espressione. Per esempio là dove si legge: "La società statale europea sembra tramutata in una grande famiglia. Gli inquilini possono essere nemici gli uni degli altri, ma, speriamolo, non possono più dilaniarsi.", lo "speriamolo" è un'aggiunta. Oppure quando si parla della pace religiosa instaurata da Carlo V e rotta dalla guerra dei Trent'anni, si dice che "una nuova pace generale (cioè quella di Westfalia) dovette ristabilirla per secoli", ma nella prima edizione si diceva imprudentemente "per l'eternità". Già i secoli erano abbastanza inverosimili, ma qui, con la constatazione che Schiller era un inguaribile ottimista storico, possiamo abbandonarlo al suo destino di storico, che non fu facile, perché fu subito contestato da un preesistente ordinario di storia e costretto a chiamarsi professore di filosofia pur continuando a insegnare storia. I frutti di questo insegnamento furono due libri sulla storia della rivolta dei Paesi Bassi e sulla guerra dei trent'anni di cui Niebuhr si chiedeva come si potessero seriamente chiamare opere di storia e che in effetti oggi servono soltanto a commentare i drammi che Schiller scrisse su questi sfondi storici. Resta il fatto che Niebuhr, storico scientifico, era poco leggibile, e quindi volendo si potrebbe fare una digressione, valida anche per la storia letteraria, sul conflitto tra storia come scienza e storia come narrazione, recentemente indagato per le nostre discipline in un libro di Remo Ceserani, intitolato appunto Raccontare la letteratura. Ma più interessa allo scopo dichiarato di definire, per quanto umanamente possibile di questi tempi, l'essenza o lo spirito della letteratura tedesca, la prima parte dello scritto schilleriano, in cui ancora non si parlava di storia ma solo dell'atteggiamento che il nuovo professore richiedeva dagli studenti di fronte agli studi, e che poteva essere quello del "dotto di professione" (come Alfero traduce la più vigorosa parola tedesca Brotgelehrte, "dotto che pensa al pane", formata analogamente ai più comuni Brotstudium, Brotberuf e simili) ovvero quello della "mente filosofica" (philosophischer Kop/). Il primo, afferma Schiller, "al suo ingresso nella carriera accademica non trova cosa più importante che distinguere accuratamente quelle scienze che egli definisce professionali da tutte le altre che dilettano lo spirito soltanto come spirito. Tutto il tempo che egli dedicasse a queste ultime, riterrebbe di sottrarlo al suo mestiere avvenire e non potrebbe mai perdonarsi questa sottrazione." "Uomo degno di compassioneesclama poi Schiller-, che col più nobile di tutti gli strumenti, con la scienza e con l'arte, non vuole e non opera cosa più alta di quella che il bracciante compie con lo strumento più modesto." "Come diversamente-prosegue il nostro pensatore- stanno le· cose per la mente filosofica! Con la stessa cura con cui il professionista del sapere scinde la sua:scienza da tutte le rimanenti, egli cerca invece di estenderne il campo e di ristabilire il vincolo di questo con tutti gli altri campi - ristabilire, dico, poiché soltanto l'intelletto che astrae ha posto quei limiti, ha separato l'una dall'altra quelle scienze." 35
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