CONFRONTI nemmeno è la prima volta che nefandamente si folclorizza su Napoli e sui bambini, giacché le strade del colonialismo e del razzismo sono sovratemporali e all'incirca dello stesso numero delle vie del Signore; ma il problema sta proprio nel fatto che non si tratta della prima volta, bensì di ancora una volta. Certo, ognuno può dedicarsi con meticolosa applicazione alla nefandezza che preferisce, ma io vorrei ricordare quel che diceva Giovenale: "Se prepari qualche nefandezza, abbi almeno il massimo rispetto per l'infanzia" (Satire, XIV). Sì, rispetto: una parola così semplice e forte da fare paura, perché presuppone che l'altro esista davvero. Non si tratta di fare del bambinismo, di darsi un sentire ideologico, di spalmarsi addosso appiccicaticce melasse; anche perché io proporrei piuttosto di assumere a principio quello che diceva Femand Deligny: "Bettelheim dice che bisogna amarli. Ma non mi faccia ridere. Io dico: bisogna rispettarli. Quello che mi irrita è l'indigestione di affetto che si fa subire ai ragazzi, è da questa indigestione che nasce lo scompenso. Picchiare i ragazzi non è grave, soffocarli è tremendo." (F. Deligny,/ ragazzi hanno orecchie, Emme 1978; ma è questo un libro che non si trova più, e nemmeno si trova - ed è una mancanza ancora più grave-, dello stesso Deligny, lo straordinario / vagabondi efficaci, Jaca Book 1973). Proporrei di assumere questo non certo perché ritenga che i bambini debbano essere picchiati o si debba non amarli, ma perché nel rapporto educativo - almeno fino a quando non si diventi cronopios ("Un cronopio ha un figlio e subito è rapito in estasi( ...). Il figlio, come è ovvio, lo odia senza eccezione di sorta( ...). Però i cronopios non se la prendono molto perché anche loro hanno odiato i genitori, e anzi si direbbe che questo odio sia uno dei nomi della libertà e del vasto mondo." J. Cortàzar, Storie di cronopiose di fama, Einaudi 1971)- uno dei rischi più incombenti è la prevaricazione, anche da parte dei benintenzionati. Io speriamo che me la cavo è il prodotto di una cultura che tutto prevede ma non il rispetto per i bambini, e in quanto tale è un libro pericoloso; e non è un libro divertente. Non importa che contenga espressioni divertenti, il problema vero è che di quei modi espressivi, di quei bambini, di quelle condizioni di esistenza - come ha scritto con la consueta acutezza Antonio Faeti su "l'Unità" del 4 aprile '90 - in tutti i salotti italiani si ride sconciamente. E non è un libro divertente, non può esserlo, perché è il prodotto di una cultura che non considera i bambini se non quando garantiscano in qualche misura lo spettacolo; una cultura che si serve di loro, nutrendosi di violenze e mistificazioni e chiudendo il suo squallido pasto con il dessert stomachevole del "dolce" e dell' "ingenuo" o del "poverino è stato violentato". Stomachevole, sia chiaro, non certo perché i bambini non abbiano dolcezza e ingenuità o non subiscano violenze, bensì perché semplicemente falso, posticcio, pretestuoso - e guardonesco, anche. Prendere la parola, prendersi le parole, è quanto di più arduo; eppure è possibile, e probabilmente è qualcosa che ha molto a che vedere con ciò che ha qualche senso. E parlare, dirsi e dire - e scrivere, quindi-può anche portare ai più diversi esiti, anche tra i bambini. La scuola potrebbe esserne un luogo all'incirca privilegiato; questo però può avvenire soltanto là dove ci si dia da fare a praticare un uso realmente libero del linguaggio, ma un uso realmente libero del linguaggio può aversi soltanto là dove lo si assuma come una costante e non come un evento - come il respiro, insomma-, e invece la costante è perlopiù il non uso del linguaggio, la degenerazione in stereotipo, la riduzione a secchezza o a vuoto, e troppe pratiche didattiche sono improntate a sottolineare la forzatura e l'estraneità, il dire a comando, l'artificio. Un uso realmente libero del linguaggio si può avere soltanto 32 là dove si bandisca ogni pretesa di esemplarità, ogni pretesa di "poeticismo", ogni forzatura che non sia il semplice fluire della forza della necessità di dire. La necessità di dire, non il forzare a dire, o l'estrapolare canagliescamente le tante squisite espressioni di cui i bambini sono generosi emittenti. · In questi mesi è uscito un altro libro che si presenta come un'occasione in cui si dà la parola ai bambini: M.R. Parsi, I quaderni delle bambine, Mondadori 1990. Anch'esso è un libro in cui compaiono testi scritti da bambini - tutte bambine, in questo caso -, e sono testi che raccontano di abusi sessuali esercitati su di loro dagli adulti.Non si tratta di testi resi anonimi, ma correttamente attribuiti alle loro autrici, i cui nomi, giustamente, non sono quelli reali; e si tratta di testi nati all'interno di un trattamento psicoterapeutico, trattamento di cui nel libro si parla - seppure molto parcamente, in qualche nota e nelle brevi presentazioni dei venticinque "casi". È questo, senza dubbio, un libro diverso da quello di D'Orta; eppure, all'incirca, altrettanto equivoco. Sì, equivoco, perché ancora una volta dell'infanzia si parla soltanto per le situazioni estreme, per le situazioni in qualche modo spettacolari, contribuendo così forse anche a stuzzicare interessamenti morbosi. Sì, equivoco, perché quelle bambine, le ioro esperienze tragiche, le loro vite private di tenerezza e rispetto e amore e riempite invece di violenza, di cancellazione, di uso annichilente, vengono esposte, poste in vetrina. E questa è un'altra violenza, gravissima anch'essa. Perché farlo? Abbiamo forse bisogno dei dettagli delle violenze subìte, per prendere coscienza? Se è così, siamo anche noi violentatori, e non sarà certo inorridendo che rimedieremo alla violazione subìta o alla violenza ulteriore. E non c'è solo questo; c'è anche almeno un altro problema: sono molte le persone che.non abusano sessualmente dei corpi dei bambini, ma tra queste-e, ripeto, sono molte-ce ne sono troppe che vìolano comunque le loro vite: trascurandole, posponendole, deridendole, ignorandole, disprezzandole, non rispettandole. Tacere e far tacere, allora? No di certo, decisamente. Si tratta piuttosto di dire molto di più; parlare e fare parlare, e molto di più - semplicemente: sempre-, e ascoltarli davvero - semplicemente: sempre - i bambini; e parlare con loro davvero, e molto di più; efarsi ascoltare da loro. Per dare loro "buoni e santi ricordi" da custodire dalla loro infanzia? Per contribuire in qualche modo alla loro salvezza? Certo - e perché no?-. Ma anche per la salvezza nostra, perché dai bambini - e sia il libro di D'Orta sia quello della Parsi, pur nella loro equivoca essenza, non fanno che confermarlo - possono arrivare illuminazioni prodigiose, per esempio sul senso del ridere e del piangere, sull'essere e sull'avere, sull'oggi e sul futuro, sul progettare e l'andarsene, sul clima, sulla tristezza. E sulla difficoltà di dotarsi di ricordi "buoni e santi". Puòdarsi che, più di Aljosa Karamazov, abbia ragione Wilbur Giunchiglia-Il Swain: "Posso pensare a un'altra forma di educazione accelerata per un bambino che, a suo modo, è quasi altrettanto salutare: conoscere un essere umano che goda la massima stima del mondo degli adulti, e accorgersi che quell'individuo è in realtà un pazzo criminale." (K. Vonnegut, Comica finale, Elèuthera 1990). Può darsi, non lo so. In ogni caso mi sembra che l'accorgersi di un siffatto individuo, il fare tale scoperta, non potrebbe che essere annoverato fra i ricordi "buoni e santi". Il vero problema è un altro, fastidioso come un sasso nella scarpa e grande come un macigno: nonostante quel che certe . accorate indignazioni possono suggerire, ad aggirarsi e agire, più che pazzi criminali, sono furbi mediocri, abili mercanti, sottili profittatori.
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