CONFRONTI si vorrebbe mai uscire. Garboli ha un orecchio straordinariamente attento alle misure di tempo, alla metrica della prosa. Leggendolo, mentre si tiene il filo dell'argomentazione, non si perde mai il filo della musica, dei movimenti ritmici. Ma come affermare, poi, ciò che Garboli esplicitamente rifiuta? L'idea del critico-scrittore non lo attira affatto. Scrittore e critico sono due cose che non vanno confuse. Lui infatti non le confonde. Semplicemente sa che, in quanto conoscenza raggiunta per approssimazioni successive, e usando mezzi diversi (dalla filologia alla memoria personale, dalla fisiognomica alla storia della cultura), la critica è, o diventa, restando se stessa, letteratura. Per esempio, i saggi di Garbo li sono sorprendenti.Uso questo aggettivo senza voler sorprendere, ma solo perché è il più piano e diretto, il più banalmente adeguato che chiunque potrebbe usare dopo aver letto questo libro. La ragione è semplice. Non c'è critico che meno di lui sia incline alla ripetizione di formule correnti del linguaggio critico. Il movimento iniziale del suo linguaggio è spesso il gesto con cui si rinuncia ali 'inerzia di quelle formule. Le rovescia, le mette da parte. Deve essere per questo che gli incipit di Garboli sono quasi sempre una scossa.L'inizio a sorpresa esibisce e rovescia dei luoghi comuni. Non si tratta di gesti a effetto, anche se il loro effetto non va sottovalutato. Chi legge, infatti, si sveglia, sente che qualcosa nella pagina sta per succedere. E far succedere qualcosa di imprevisto in una recensione non è cosa da poco. Uno dei movimenti più tipici della sua saggistica sembra questo: passare dalle definizioni alle divagazioni. Fin dalle prime battute sappiamo già tutto, l'essenziale è stato enunciato. Garbo li non ci tiene a tenere il lettore in stato di attesa. Non rimanda la conclusione. La anticipa, piuttosto, per poter subito ricominciare là dove un altro penserebbe di aver concluso. Si potrebbe perfino dire che in Garboli c'è un uso divagatorio e diversivo della definizione. Qua e là compaiono a volte degli enunciati aforistici, che il contesto però subito svalorizza, invece di isolare ed esaltare. Il continuum narrativo e argomentante, il flusso interpretativo non si interrompono affatto in prossimità degli "a fondo". Viceversa, sembra che Garboli voglia mostrare il carattere precario, relativistico, instabile della tecnica intellettuale della'definizione. La trama dei concetti sarebbe falsificante se venisse a mancare il ritmo del racconto. La più brillante ed esauriente delle definizioni è solo un passaggio. Subito dopo si ricomincia da un'altra parte. Come se il critico volesse a tutti i costi spiegarsi (o semplicemente vedere, farci vedere) cose che a nessun altro sarebbe venuto in mente di scoprire a proposito di un artista. E il lettore di Garboli è come se a un certo punto stesse lì per assistere a una ricerca che si svolge come ricerca privata del critico. È al di là dei compiti istituzionali, previsti e richiesti alla critica, _cheGarbo li comincia davvero ad appassionarsi, per esigenze conoscitive tutte sue che gli impongono una continuazione dell'indagine al di là, per così dire, dei modi e dei tempi previsti. Come critico militante (denominazione comunque problematica, e in questo caso forse impropria), Garbo li non è né un giudice né un archivista, ma un diagnostico. E perciò la definizione e il giudizio mantengono in lui una speciale neutralità descrittiva. · Arte ammirevole questa: Garboli riesce a dire senza offesa, con la più innocente naturalezza, cose che dette in modo diverso suonerebbero come condanne senza appello, svalutazioni liquidatorie, stroncature. Nella sua chiarezza diagnostica, Garbo li non giudica. Ognuno è come è, sembra dire. E tacerlo sarebbe partire male, negare e sprecare delle evidenze preziose che la critica può vietarsi solo a caro prezzo. Spesso è proprio da certi punti di negatività e di deformità che Garboli parte per risalire verso la costruzione dei suoi ritratti. Perché nella critica di Garboli l'arte, le arti (in questo libro ci sono saggi su pittori, narratori, critici, poeti, attori) sono una condizione di .esistenza prima di essere una categoria di prodotti culturali Cesare Gorboli in uno loto di Vincenzo Cottinelli. realizzati. L'arte come oggetto finito, in un saggio di Garboli torna a liquefarsi, risale allo stato fluido di possibilità, processo in corso, tentazione, gestazione dolorosa, malattia. Si direbbe anzi . che per Garboli l'arte sia una malattia particolare verso cu, spericolatamente (con una imprevidenza che meraviglia) gli artisti precipitano. Ed è la particolarissima malattia (fra arte e vita) che ha colpito ogni particolare artista ciò che magnetizza la curiosità indagatrice di Garboli. Di che cosa era malato, di_quale morbo era sofferente chi ha realizzato quella tale opera? E questo il primo interrogativo di Garboli. E il secondo è: da dove viene a un artista il coraggio, o l'ottusità, o la tentazione di ammalarsi di quel male che lo farà scrivere, o dipingere, o entrare in scena? Garboli ammira soprattutto questo negli artisti: la capacità di non proteggersi dal male, di cadere, di scivolare in esso. Per questo, poi, è con loro così prodigo di c'omprensione. È l'istinto di soccorrere (di cui si parla quasi per caso a un certo punto) l'istinto che Garboli si riconosce. E la critica per lui è questo: soccorrere con tutta la propria attitudine comprensiva, cartesiana e barocca, quel sofferente eroico, quel predestinato al male che è l'artista. Essere il suo testimone, il suo specchio. Prendersene intellettualmente cura. Studiarlo come farebbe uno scrupoloso diagnostico, innamorato e spaventato dalle meravigliose varietà del male. La malattia è un grande, essenziale spettacolo, come sapeva Molière. (Ma noi vogliamo vedere solo la salute, e così rendiamo banale l'arte). Felicemente estraneo alla traversie metodologiche che hanno inaridito la critica letteraria dopo il 1960, Garboli appare oggi come il naturale continuatore di una tradizione che ignorava l'attuale internazionalismo universitario. I suoi padri e fratelli maggiori sono i grandi "dilettanti" della prima metà di questo secolo. Rispetto a questi, non è un restauratore, è un erede diretto. Ed è uno degli scrittori italiani di cui oggi assolutamente non mi priverei. Anche se la lettura dei suoi sagg_ifa b~~enare u~'ide~ forse illusoria: l'idea di una cultura letterana e cnuca che vive d1 passioni più che di istituzioni, e che oggi è quasi sparita. 19
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