Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

CONFRONTI impressionante sulla nostra umanità: hanno modificato la nostra soglia di percezione, la nostra capacità di indignarci, di scandalizzarci. La nuova soglia non è più quella della prima, né quella della seconda guerra mondiale, né quella delle innumerevoli guerre a debole e a forte intensità combattute negli ultimi cinquant'anni, ma è lo sterminio totale: al di sotto di questa soglia sembra che tutto sia permesso. L'attualità del Discorso sulle tre guerre rrwndiali continua ad essere bruciante e solo una prosa angosciante, nervosa, che ripetutamente ripercorre i massacri della storia e ci obbliga a guardare "nel fondo dell'abisso" può mantener viva la nostra attenzione in questo processo di generale obnubilamento della ragione, della sensibilità, della compassione. La preghiera conclusiva in cui Anders invita i suoi "compagni del Tempo della Fine" a "celebrare un morto, uno solo" delle tre guerre mondiali dovrebbe stamparsi permanentemente nella nostra mente, dovrebbe essere recitata quotidianamente nelle scuole. È anche questo un esercizio, terribile, di compresenza dei vivi e dei morti, che non può non far venire in mente un episodio analogo raccontato con sapiente maestria da Kurosawa nel suo ultimo film, Sogni. Ma il punto nodale che salda la critica di Anders con quella di Capitini e Gandhi è quello della sua analisi del perché l'uomo moderno "è antiquato" (10). Egli osserva magistralmente che oggi ciò che l'uomo non sa cogliere è la "discrepanza tra causa ed effetto". In altre parole, "ciò che conta oggi è piuttosto la discrepanza tra ciò che facciamo e ciò che siamo capaci di immaginare. E solo perché non siamo capaci di immaginare i nostri prodotti e i loro effetti che non abbiamo impedimenti a costruire bombe atomiche ..." Mentre un tempo negli utopisti l'immaginazione superava la capacità di produzione, di realizzazione, oggi negli "utopisti alla rovescia", nelle disutopie, è la produzione che supera l'immaginazione. · Ritroviamo in questo punto quell'elemento che caratterizza, come ho detto più sopra, l'agire responsabile. Per essere responsabili, e razionali, oggi occorre prevedere l'esito delle nostre azioni, ma poiché la prodùzione supera l'immaginazione, poiché non si possono escludere "effetti perversi" generati dalle migliori intenzioni, oggi l'agire responsabile è un agire che "si autolimita", per evitare di compiere "errori non correggibili". Il principio del limite diventa un principio di responsabilità e, riprendendo Capitini, il nostro limitarci assicura la possibilità ad altri di esistere, di esprimersi, svilupparsi, realizzarsi. Se fuori di metafore e speculazioni astratte provassimo a tradurre in termini quantitativi cosa significa questo "principio del limite" (contrapposto al tuttora imperante principio "della crescita illimitata") vedremmo che la biosfera impone vincoli precisi, già oggi largamente superati da una parte dell'umanità (quella ricca, alla quale noi apparteniamo). Sembreranno allora meno strane le parole con cui Lanza del Vasto parlò di Gandhi: "il primo grande ecologista del nostro secolo". E suonerà anche meno strano il suo invito, che serpeggia peraltro negli scritti di Anders, a compiere una scelta di vita ispirata al principio della "semplicità volontaria", per essere più ricchi interiormente anche se meno esteriormente e per consentire agli altri due terzi della piramide umana di potere anch'essi esprimersi pienamente e dignitosamente. Ma Anders ci avverte anche che il tempo che abbiamo a disposizione non è infinito, che forse sta per scadere. Ed è per questo che, giunto alla soglia dei suoi venerabili ottantacinque anni, ha scritto un provocatorio pamphlet che sembra contraddire alcuni dei suoi assunti precedenti (11). Egli ci pone•di fronte alla nostra responsabilità in modo preciso: la scelta della nonviolenza non è un "happening", ma una lotta che deve costringere I' avversario a cambiare o a convincersi. Troppo spesso invece ci limi tiamo alle "passeggiate", ecologiche o per la pace, per ritornare il giorno dopo alle nostre quotidiane occupazioni. E Anders incalza chiedendo se non sia giunto il momento di agire "anche c~n la violenza", perché ci troviamo "in condizioni di necessità". E un dilemma che non si scioglie se non scegliendo la nonviolenza dei forti e non quella dei deboli, affinando le tecniche, allargando la base di consenso, intensificando l'impegno e la coerenza. Anche Gandhi, d'altronde, disse più volte che di fronte alla viltà del debole preferiva il ricorso alla violenza, ma sosteneva anche che esisteva una terza strada. Questa speranza non è ancora morta. Note 1. È il titolo dello scritto autobiografico di Capitini pubblicato su "Linea d'ombra", dicembre '89. 2. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, EGA, Torino, 3 voli., 1986-1990. Johan Galtung, Gandhi oggi, EGA, Torino 1987; Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, a cura di G. Pontara, Einaudi, Torino 1973. 3. Questa tripartizione del concetto di violenza è stata proposta da Galtung. 4. Peter Singer, le piramidi del sacrificio, Einaudi, Torino 1972. 5. Gene Sharp, op. cit., voi. II. 6. Citato da Steve J. Heims, fohn von Neumann andNorbert Wiener, From Mathematics to the Technologies of life and Death, The MIT Press, Cambridge 1980. (È in corso la traduzione italiana presso Lubrina.) 7. A. Capitini, le ragioni della nonviolenza, 28 luglio 1968. Pubblicato su: "L'invito", maggio 1990. 8. Franco Cassano, Approssimazione. Esercizi di approssimazione dell'altro, Il Mulino, Bologna 1989. 9. Johan Galtung, Palestina o Israele: una soluzione nonviolenta?, Sonda, Torino 1989. 10. Per un'ottima guida alla bibliografia di Anders si veda !"'Introduzione" a cura di Ea Mori nel volume pubblicato da Linea d'ombra. · 11. Giinther Anders, Gewalt: ja oder nein, in corso di traduzione presso l'EGA di Torino. Lepassioni del capitale Filippo La Porta Molto opportunamente Feltrinèlli ha ripubblicato, dopo dieci_ anni, le passioni egli interessi di Albert Hirschman (pp. 112,L. 28.000), la cui lettura appare utiDisegnodi RonCobb. lissima proprio al termine dei rampanti anni Ottanta. Sottotitolo del libro è infatti "Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo": dopo aver assistito impotenti a questo (quasi) universale trionfo, siamo tutti curiosi di sapere se quegli argomenti restano tuttora validi. Hirschman è un economista di molteplici interessi e di raffinata' cultura filosofica, capace di trascendere gli angusti limiti della propria disciplina e di intrattenerci per un centinaio di pagine sulla nascita dello spirito del capitalismo con insolita verve e ricchezza argomentativa; uno scienziato sociale, diciamo così, d'altri tempi, che non nasconde la sua ammirata nostalgia per gli economisti politici dei secoli scorsi, "liberi di spaziare" e immuni da specialismi riduttivi. La tesi del libro, esposta in modo lineare, muove da una suggestione weberiana, sviluppata però alle estreme conseguenze. 17

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