Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

CONFRONTI dell"'apertura" all'altro e più in generale a tutti gli esseri viventi e non viventi, la "compresenza dei vivi e dei morti", viene oggi ripreso da molti autori nel lento processo di "allargamento della coscienza" oltre la dimensione degli esseri umani. È in questo ambito di riflessioni che si colloca il lavoro di Franco Cassano, il quale ha di recente proposto in Approssimazione alcuni "esercizi di esperienza dell'altro" (8). Ma né Capitini, né tantomeno Gandhi, sono degli illusi che non si rendono conto delle difficoltà e dell'asprezza della lotta, che hanno entrambi sperimentato sulla propria pelle, patendo più volte il carcere. Essi sanno che anche se esiste una base "razionale" della nonviolenza che, come ho prima argomentato, oggi ci appare con maggiore precisione, essa è necessaria ma non sempre, purtroppo, sufficiente. È per questo che in certi casi non basta rivolgersi all'intelletto, ma bisogna agire· sul cuore dell'uomo. Anche questa seconda intuizione, che si badi bene non ha nulla di intimistico, è suffragata oggi da una larga evidenza empirica. Per rivolgersi al cuore è necessario essere disposti a soffrire nel corso della lotta nonviolenta, pagando su di sé il prezzo che questa lotta comporta. Questa disponibilità, frutto di un addestramento e di un lavoro personale, che deve portare a sconfiggere la paura, è la condizione per poter far breccia là dove la ragione da sola sembra essere insufficiente. Gene Sharp descrive questo meccanismo con il termine diju-jitsu politico, il ribaltamento dell 'effetto della repressione scatenata dall'oppressore, o dall'avversario, su coloro che la subiscono mantenendosi saldi nella disciplina della lotta nonviolenta. Questo meccanismo, che indebolirà l'avversario sino a dividerlo, si è prodotto più volte nella storia e Galtung ha individuato una particolare condizione di efficacia. Analizzando diverse lotte avvenute in contesti sociali assai diversi (Vietnam, Sud Africa, Intifada, lotte per i diritti civili negli Usa, resistenza nonviolenta al nazismo) ha riscontrato la seguente costante: la lotta nonviolenta è tanto più efficace quanto minore è la "distanza sociale" tra oppressori e gruppo di protesta impegnato nella lotta (9). L'efficacia della lotta nonviolenta nei casi prima ricordati è stata amplificata dalla presenza, per esempio, dei bianchi che lottavano fianco a fianco con i neri (sia in Sud Africa sia negli Usa), dei movimenti per la pace israeliani che protestavano a fianco dei palestinesi, e così via. Questo comporta anche una grande responsabilità per coloro che, come molti di noi, sono oggi potenziali "terze parti" rispetto ai molteplici conflitti che si stanno svolgendo sulla scena mondiale. Nel riassumere le condizioni che caratterizzano la lotta nonviolenta, Giuliano Pontara sottolinea anche l'importanza di lottare non solo "contro" ma anche "per", ovvero di impegnarsi contestualmente per quello che Gandhi chiamava "il programma costruttivo". Ancor più che in passato, oggi questo termine comporta un impegno preciso. Pur con accenti diversi, sia Capitini sia Gandhi, criticano duramente il modello di società basato sull'economia capitalista, incapace di soddisfare in modo adeguato i bisogni fondamentali dell'uomo (materiali e non) non solo per una minoranza. In un momento in cui tramonta l'alternativa storica al capitalismo, battuta tra l'altro, come sostenne più volte Capitini, anche per non aver saputo cogliere il nesso perverso tra violenza diretta e violenza strutturale, è ancor più necessario riflettere sulle possibilità di costruire una società fondata su una economia nonviolenta. È a questo punto che possiamo cominciare a inserire la nostra riflessione sull'opera di Giinther Anders, uno dei pochi intellettuali europei che, con Bertrand Russell e Albert Einstein, ha avuto il coraggio e la costanza di proseguire la sua opera di denuncia e di riflessione filosofica sull'assurda follia della corsa agli armamenti. Le sue Tesi sul 'era atomica (del 1959) si sposano felicemente con quelle su Cemobyl del 1986. Il legame tra nucleare civile e nucleare militare, che gran parte della nostra cultura ha accuratamente rimosso, costituisce uno dei tratti più significativi dell'o16 Gunthcr Anders. pera di Anders e mette con chiarezza in luce il rapporto che esiste tra critica delle attuali dottrine di difesa (che in realtà sono dottrine di offesa) e modello di sviluppo (che in realtà è prevalentemente un modello di crescita quantitativa). La prosa di Anders potrebbe sembrare superata a chi si illuda che l'attuale process_odi disten.- sione traUsa eUrss consenta di tornare "tutti a casa". E purtroppo quanto pensano coloro che seguono le mode: l'altro ieri quella della"fame", ieri quella della "pace", oggi quella dell '"ambi ente", domani quella del "razzismo". Ma i cambiamenti profondi, come quelli di cui abbiamo bisogno, richiedono impegno costante, su fronti diversi, non semplice delega agli esperti e richiedono in ultima analisi, come ci insegna Kuhn, un cambiamento di paradigma. A tutt'oggi questo cambiamento non è affatto avvenuto, né nel campo delle dottrine militari, né tantomeno in quelle economiche. L'euforia seguita alla caduta del muro di Berlino e alla scomparsa del "nemico" e dell '"impero del male" gioca dei brutti scherzi: impedisce di vedere che la guerra ciononostante continua, che la proliferazione nucleare orizzontale annovera nuovi clienti nel "club atomico" (Pakistan, Israele, Iraq, Sud Africa), che la guerra a "debole intensità", elaborata con molto tempismo dagli strateghi del Pentagono, continua a seminare morte nel Centramerica, in Africa, in Ameriéa Latina, che l'altra guerra a debole intensità, quella del "debito" dei paesi poveri ha abbassato tutti gli standard quantitativi dello stato di salute delle popolazioni in quei paesi (speranza di vita, mortalità infantile). Come denuncia a più riprese Anders, ed è per questo che la sua prosa è tutt'altro che superata, le armi nucleari hanno prodotto un effetto

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