Linea d'ombra - anno VIII - n. 51 - lug.-ago. 1990

CINEMA UN MOSAICO VISIONARIO I "SOGNI" DI KUROSAWA Gianni Volpi Kurosowo dirige Sogni. Sotto: Chishu Ryu, protagonista dell'ultimo sogno. Per fortuna, Sogni di Akira Kurosawa è un film imperfetto, cioè vivo, a tratti persino banale nella sua smania di sporcarsi le mani con il mondo attuale. Non è un film-testamento come si poteva temere per il suo soggetto, il suo taglio, l'età del suo autore ormai ottantenne. Oppure lo è nel senso in cui lo sono tutti i suoi film degli ultimi quindici anni, daDersu Uzala in poi, tutti alla ricerca di un ordine interiore, di un'amara pacificazione con se stesso, ma non con la società, nel segno di uno scetticismo che è constatazione solitaria e patetica, nella sua grandiosità, di un'impossibilità definitiva, e è espressione di un senso d'impotenza. A dominare Sogni è lo sguardo di un vecchio che si allontana dalle cose contingenti e guarda solo all'assoluto, al sogno come luogo di cose vere nell'irrealtà del mondo di oggi, poesia e tragedia, sentimenti e paure primarie, favola e realtà, uomo e natura, rapporti di cui sente l'assenza e dunque sono resi oggetto di sogno non freudiano, di rimpianto non tutto nostalgico e tradizionalista, di utopia di un modo di vivere in cui anche il dolore, la fatica, la morte hanno un senso. Il suo atteggiamento ricorda stranamente quello di Mao alla fine della sua vita, quando - a detta dei suoi visitatori - parlava del mondo e delle rivoluzioni ormai in termini assoluti, di una sorta di metafisica del reale. Sogni si ricollega nella sostanza a un altro film di Kurosawa di vent'anni fa, Dodes' kaden, mosaico visionario che si faceva poema sul dolore. E in questo film così libero, fatto di otto sogni, le chiavi di interpretazione sono disseminate dappertutto. Nell'iniziale "Sorriso dopo la pioggia" dove il rapporto con le volpi da parte del bambino, che ha visto quello che non doveva vedere, assume un senso di trasgressione favolistica e religiosa, di interdetto ancestrale alla curiosità del bello e del vero. O nel finale "Il villaggio dei mulini", idillico ritomo alla tradizione dove il vecchio che guida i bambini a un funerale-festa di una vita ben spesa, ammonisce contro l'inganno diuna civiltà di comodità che spinge a scartare le cose davvero buone. Ma un po' in tutti i "sogni" Kurosawa appare un viaggiatore nell'arte e nella natura, cose da museo. Da angoscia. "Non bisogna dormire perché il sonno è la morte", urla ai suoi compagni di sventura l'alpinista della "Tormenta", il più ossessivo degli incubi (quali sono quasi tutti questi sogni). Ma, si sostiene, nell'arte il sogno è necessario perché le immagini "prendano vita". E sono immagini da pittore, di una bellezza che rappresenta la catastrofe e, di per sé, la sua infantile, ingenua (nel senso più alto), artistica negazione. Arte e natura, appunto, ma non solo come poli tematici, bensì unite da un nesso essenziale che ne sancisce nello stesso tempo la distanza. Forse, davvero, Sogni si colloca in un attimo tra cane e lupo, "tra il crepuscolo del Giappone e l'aurora della sua immagine". · In questo senso "I corvi" è uno dei sogni chiave, nonostante un improbabile Scorsese macerato dai tormenti di artista. "Non cercate di dipingere un quadro, ·guardate ciò che vi passa davanti e sarete in presenza di un quadro", dice l'allucinato Van Gogh al giovane Kurosawa. In questo viaggio naYfe videografico dentro i quadri del pittore, alla fine si racconta proprio un processo in cui l'esistenza produce l'arte (il passaggio di Van Gogh che provoca il volo dei corvi e "crea" il quadro), immagini di frontiera, e quindi anche di separazione, di differenza, in cui perdersi. E dallo stesso processo nascono gli apologhi contemporanei di "Fujiama in rosso", l'Apocalisse atomica in Fujicolor su una spiaggia come limite estremo e deserto di oggetti di consumo, e "Il demone che piange", il giorno dopo della civiltà dello spreco, del cannibalismo, del cancro. È una discesa nel profondo e nei luoghi comuni della propria anima e di quella contemporanea, in un gioco estremo di verità e menzogne, di illusione e realtà, in un lavoro di artificio e stilizzazione (e contaminazione di oriente e occidente, dal suo cinema e da quello altrui, alto e basso, raffinato e gore-horror). Uno dei misteri di un film anche troppo didattico, esplicito nelle sue idee e nel suo messaggio, è proprio quello di dare alla fine un senso di mistero. Di muoversi su un confine. Tra vita e morte ne "Il tunnel", cupa vicenda di fantasmi e di storia come rimorso antimilitarista. Alla fine della guerra, un ex-ufficiale ritrova le schiere dei suoi soldati che ha mandato a morire in massa e che "ritornano" emergendo da un tunnel, a lamentare la loro ingiusta sorte, ma se ne libera richiamandoli a una cieca disciplina e etica nipponica. A sbarrargli il ritorno a casa resta solo un cane ringhioso, simbolo del militarismo e del rimorso. E uno dei misteri del film resta la sua capacità di essere nello stesso tempo tecnologico e contadino, di combinare effetti speciali lucasiani e raffinatezze No. Specie nei primi sogni, cortei nuziali delle volpi e balletti dello spirito degli alberi, nevicate di fiori di pesco e fate delle nevi che sono la morte in una tormenta astratta e rallentata, ci ricordano la tendenza alla teatralità del reale, il suo senso corposo del 105

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==