IL CONTESTO nario) dal termine inquinare e afferma che sì, effettivamente, la presenza di altre etnie è pericolosa perché, appunto, "inquinerebbe" la nostra cultura nazionale. Di fronte a una successiva domanda sull'incontro e lo scambio tra italiani e stranieri, le risposte sono particolarmente eloquenti. Quasi il 28% degli interpellati esprime indifferenza o rifiuto nei confronti degli immigrati. Il 19.4% dichiara imbarazzo: come se la curiosità e la disponibilità fossero trattenute dalla percezione della differenza (e della conseguente distanza). Eppure va notato che, qui, registra una rilevante crescita l'area dei "disponibili" (53%), così come raggiungono il 59% quanti, a una domanda precedente, rispondono di considerare la presenza in città di etnie diverse una "occasione di arricchimento". Si può sospettare che queste risposte rivelino una sorta di moda culturale, un riflesso-Benetton prodotto da una generica attrazione per "il dialogo tra i popoli", a prescindere dai costi psicologici che può comportare. . Tuttavia, di fronte alla personalizzazione del problema e alla sua manifestazione nella concreta figura del venditore ambulante di colore - e, dunque, rispetto ali' impatto reale con lo straniero nella vita quotidiana - la stragrande maggioranza degli studenti non esprime ostilità: ma, al contrario, comprensione. Resta un 7.7% di irriducibili, i quali ritengono, in sostanza, che "gli immigrati sporcano"; e un altro 5.4% che li vede come concorrenti dei disoccupati italiani. Certo, parliamo appena di alcune centinaia di studenti ma è comunque significativo che ottenga più consensi una risposta apertamente razzista ("rovinano l'immagine di una città moderna ed europea come Milano") che una difensiva ("rubano il lavoro agli italiani"). Il dato più interessante che emerge dalla disaggregazione delle risposte riguarda la ripartizione per sesso. Le studentesse rivelano un atteggiamento di disponibilità verso lo straniero che è sempre decisamente superiore a quello degli studenti. In particolare, tale differenza emerge quando si esaminano le risposte particolarmente ostili: in alcuni casi, la quota di maschi "prossimi al razzismo" è oltre due volte quella delle femmine. E se è vero che rispetto ad alcune risposte intensamente "emotive" - tali da suscitare sentimenti di simpatia - il consenso femminile è particolarmente alto, quel consenso premia, in maniera notevole, anche risposte "razionali". Altra variabile presa in considerazione riguarda la residenza degli intervistati. I risultati appaiono inequivocabili: l'indice dell'intolleranza cresce regolarmente e massicciamente dall'hinterland - passando per la periferia - fino al centro. Qui le risposte connotate in senso virtualmente razzista ottengono estesi consensi (18.6% per l'identificazione stranieri=spacciatori contro l' 11.6% dell'hinterland). · Va tenuto presente, d'altra parte, che le zone dove minore è l'intolleranza sono quelle stesse dove ci sono stati nei mesi scorsi conflitti più forti. Ciò potrebbe voler dire che, in tali zone, proprio quei conflitti abbiano prodotto una spaccatura generazionale: l'atteggiamento di rifiuto degli adulti induce tra i giovani un atteggiamento di maggiore apertura. Va notato, ancora, come gli studenti che esprimono molta (o abbastanza) preoccupazione per il proprio futuro professionale siano gli stessi che ritengono sbagliato riconoscere agli stranieri il diritto al lavoro ("perché diventerebbe più difficile per i disoccupati italiani trovare lavoro"); oppure ritengono giusto concedere quel diritto perché il lavoro nero finirebbe col "danneggiare anche i lavoratori italiani". Ne risulta confermata, ancora una volta, l'ipotesi che l'intolleranza razziale abbia un legame strettissimo con stati emotivi di ansia e di insiçurezza. Più che l'odio per l'altro, è la paura per sé che può determinare il razzismo. Non è una consolazione: è una constatazione. a Addioalla "cosa"? Goffredo Fofi Un convegno a Milano Il convegno "Nord Sud Est Ovest" da noi organizzatQ assieme alla Provincia di Milano nei mesi di marzo e maggio (in realtà incontri tra intellettuali di varie parti del mondo su un tema che ci sembrava d'obbligo: "dove si sta andando") ha avuto un notevole successo di pubblico. Le relazioni dei partecipanti compariranno in un numero autunnale della rivista. Un consuntivo? Al positivo, l'aver avuto la possibilità, per noi e per il pubblico, di incontrare alcune persone di altissima levatura umana, oltre che artistica e intellettuale, a sfatare il pregiudizio (tanto spesso però verificato) secondo il quale raramente a bravo intellettuale corrisponde brava persona o simpatica. Un'eccezione devo registrarla, ed è parere personale: mi è sembrato del tutto inadeguato all 'altezzà dei compiti che dice di proporsi l 'uruguayanoGaleano, intellettuale molto "ali' antica terzina", con il suo abisso di retorica e il suo modo di porre i problemi, con forti sospetti di insincerità derivanti appunto dall 'eccesso della retorica; e mi pare che i suoi limiti, diciamo pure il suo "ritardo", siano quelli di molti altri intellettuali in America Latina e altrove, che li rendono, mi pare, impreparati alle novità che si prospettano; anche quando d'accordo sui fini, emagari sulle analisi, I 'liso di modi ben noti (i mezzi! i mez- :z,i!) è tale da provocare estrema diffidenza. E lo dico per l'unico motivo del successo che questa retorica continua ad avere presso una certa sinistra italiana molto innamorata delle rivoluzioni altrui. Ma l'elemento davvero delicato di questo confronto tra persone pulitissime di varia provenienza è un altro. È la constatazione di una difficoltà grandissima a capirsi. Si parlano linguaggi molto diversi, e anche quando si è disposti a cercare in tutti i modi di capirsi, la difficoltà permane. Non è solo questione di essere portatori di interessi contrastanti tra loro, nell'immediato e oltre; è che si è rappresentanti di storie diverse, di culture diverse. E impressiona fortissimamente che, nell'era del villagg"io globale, nell'obbligo a farsi cittadini del mondo e imparare a ragionare in quanto cittadini del mondo, più grandi invece risultano le differenze, e più fortemente vengono affermate. Sarà dura, insomma. E forte è il rischio che il mondo venga_sommerso dai localismi e da scontri di tutti contro tutti, pur dentro il dominio dei grandi (anzi: del capitale, che da questo ha ovviamente da guadagnare). Gli intellettuali molto potrebbero e dovrebbero per contrastare tutto questo: incombe loro l' obbligo di mettersi il più possibile "al di sopra", e insieme quello del dialogo, e insieme quello del "capire". In questo senso, se dovessi dire con chi personalmente mi è accaduto, in questa nostra tornata di incontri, di trovarmi più in sintonia sul piano "intellettuale", è stato con gli inglesi Paul Ginsborg e Ian McEwan. Mi è sembrato che essi fossero ipiù lucidi, nelle analisi e nelle indicazioni dei compiti e delle priorità; ma in questo sono/ siamo la conseguenza di un vantaggio proprio "locale": credo che in Europa occidentale si sia goduto di grandissime possibilità di essere più informati che altrove e più "intelligenti" che altrove, perché meno sul fronte che altrove; ma di questi vantaggi pochissimi, mi pare, hanno saputo fare buon uso. In Italia, meno che altrove (e lasciamo dunque alle loro ciarle i ciarlieri, alle loro consolazioni i consolati, alla loro retorica i retori, alla loro soddisfazione i soddisfatti, alla loro dorata merda i, eccetera). Addio alla "cosa"? Si è perun certo tempo pensato che qualcosa potesse cambiare anche in Italia, si è creduto per esempio che il Pci potesse: a) perdere infine la sua parte gi storica non-opposizione, e lasciar cadere ai suoi margini la sua sedicente "sinistra" (pera! tro con scarsa possibilità di sopravvivenza, in questo caso, e che naturalmente ha tutto un passato da rivendicare di cui farebbe meglio a vergognarsi: per esempio, la
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