Linea d'ombra - anno VIII - n. 50 - giugno 1990

chezza di toni, figure, atmosfere, situazioni, la· vitalità anarchica del quptidiano, resa con una scrittura orizzontale ma mossa, le minime e quietamente eccentriche "avventure" di personaggi che guardano il mondo dal basso e sono sempre, loro malgrado, confrontati alla "inconoscibile Legge". Così si trapassa da un piano di rappresentazione all'altro, dalla piccola cronaca al surreale (di soggetti, di dettagli, come la moglie gitana che dorme sull'armadio, e di tono, "l'incredibile si è fatto realtà"), dalla satira alla pietà, dalla fresca sensualità dei due giovani a quella "rubata" delle prigioniere, a quella voyeuristica degli operai, a quella morbosa del dirigente locale che sfrutta le campagne igieniche per sfogarsi in rituali bagni di giovani fanciulle. Quasi tutte figure umane più ricche del significato politico della loro sorte. È questo che, oltre che testimoniare la buona classe del regista, riscatta la.sua "favola", riscatta la scontata poesia degli "irregolari" e la rende naturale, autentica, non troppo cercata, meccanica- specie nella rappresentazione del mondo gitano nella festa e nel ménage coniugale, èlavvero impossibile da ricondurre all"'ordine", a comportamenti e sentimenti livellati. È costretto a riconoscerli lo stesso marito-poliziotto. Perché, per un altro, signifiRICORDARE PALERMO CINEMA cativo paradosso, le vere vittime sembrano gli altri, i detentori del nuovo potere, chiusi nella prigione della loro ideologia. Con i loro universi lunatici, gli offesi protagonisti della favola rappresentano una· costante incrinatura nella morsa delle costrizioni. Pur assediati da un destino avverso, riescono sempre a fargli fronte e alla fine sono loro i vincitorienonlaRealtà. C'è inquesto atteggiamento semplice la vera morale del film e di Hrabal e di Menzel. C'è uno sguardo che guarda alla vita su un'altra lunghezza d'onda e di valori e che determina la spregiudicata presa di posizione verso la Storia, verso lo stalinismo, che ne fa una lunga "vacanza" (al pari del nazismo in Treni strettamente sorvegliati), una parentesi amara ma una parentesi. Forse è un atteggiamento che non porta lontano, e forse anche troppo. Hrabal aveva scritto di Seifert che continuava a "custodire l'essenza e la forma di tutte le belle ragazze, la grazia dei paesi e delle città e dei rapporti umani ..., ma esprimendo anche la speranza storica che rappresenta forse il contenuto costante della questione ceca". In fondo, inminore, è quanto-Allodolesul filo vuole fare, rendendo uno "stato della cos~enza" in un momento storico di illusione; ma di scelte decisive. lA LUNGAMARCIADIGIANNI AMELIO GoffredoFofi Bisognerebbe prima o poi fare i conti con Gianni Amelio e dirne tutti i meriti, di regista appartato e degno, tra i pochi in Italia a dimostrare onestà e coerenza. Però la sua coerenza è di tipo particolare: una morale del lavoro, · della·professionç, che cerca di rispettare in ogni filmche riesce (faticosamente) a "montare" la propria professionalità, mentre non mi parè che ci sia uguale coerenza nei "contenuti", o magari uguale interesse per i contenuti. Amelio si adatta, e pensa probabilmente che questo sia un pregio, o quantomeno il male minore nel contesto italiano: e i suoi contenuti li nasconde così bene che alla fine ci è molto difficile individuarli se non nel linguaggio: un pudore dei non detti, delle tensioni 'agenti in profondità, del gioco delle attrazioni e affinità e ripulse, delle difficoltà di trovarsi e di trovare, di definirsi in rapporto agli altri - famiglie, gruppi, professioni, società ... Con il tempo Amelio è diventato un regista molto raffinato, di alto livello, eun po' a sé - mai becero come i suoi coetanei o i più giovani di lui e più di successo, mai tape-àl' oeil come certi suoi seniori, e mai che parta per la tangente e riscopra il Mito o il Delirio, ·l'Eroso il Sacro, la Politica o la Verità. Ci piace alla fine proprio per questo, e anche perché è riuscito con gli anni a stabilire con alcuni critici (tra i quali mi annovero) un rapporto di fiducia e insieme di sfida: di fidu90 eia perché, senza mai arrivare al capolavoro, però mai ci ha davvero deluso, e di sfida, perché Amelio è tutto da scoprire, perché provoca analisi che sono vive e strane, di tipo induttivo, a partire dalla forma. (Non gli permettiamo però di tirare in ballo il cinema americano "d'autore", sul quale lui si è formato prima che su quello francese nouvelle vague: quel cinema era rrieno "d'autore'.' di quanto spesso non si sia preteso, a meno di Ennio Fantastichini, l'omicida di Porte aperte. confondere autore con mestiere, che non ci basta). 11suo ultimo film Porte aperte è tratto da Sciascia, ma dall'ultimo Sciascia che, vicino alla morte, aveva coniugato e distanziato la sua forza polemica e politica, e pensava di più al profondo e ali' eterno. Da ultimo Sciascia ha scritto 'infine con Una storia semplice il suo vero capolavoro: un racconto fulminante con toni da farsa e da scherzo: un'essenza di Sicilia e di Italia senza predica e digressioni, veloce e sorprendente. Mentre Porte aperte e Il cavaliere e la morte èhe lo precedono ci sono sembrati "gonfiati" come sempre di aneddoti !'! moralità, ma in un dialogo con il tempo e la morte che ha dato loro un tono più intimo, più segreto. Quello appunto che deve avere più stimolato Gianni Amelio, il quale lo ha rispettato, e ha scommesso su una linearità perplessa, di chi vuol capifee agire ma sa già che tutto è molto difficile, e soprattutto che capendo e agendo non Qtterrà poi molto, e allora gusta o soffre la curiosità del momento nel momento, e preferisce un rovello che dialoghi con l' eterno oltre il contingente, di chi pur intervenendo, e provando e riprovando, sa abbastanza (dalla frequentazione dei classici, per il piccolo giudice Volonté e per il giurato agricoltorefilosofo reso dal ~olto inedito, per il cinema, di Renato Carpentieri) che non tutti i tempi sono adatti a tutte le battaglie, e non cede le armi, ma è costretto a rinviare, a "progettare" a lunga distanza. Non eroicamente, pazientemente, e però senza cedere. Porte aperte di Amelio sembra l'esatto opposto dei film sciasciani di tanti anni fa di Risi e a maggior ragione di Petri e a massima ragione di Damiani. Non c'è nulla di plateale e morriconiano in esso, di appello declamato alle coscienze o di predicazione. (Semmai può far pensare al Rosi più lirico e pacato di Tre fratelli, poi del tutto negato del regista nel brutto telefilm alla yankee che è Dimenticare Palermo.) Anche qui, è come se Amelio ci avvertisse che fare un film contro la pena di .morte gli sembra sfondare una "porta aperta", ma che tuttavia è una cosa non indegna da fare, o ripetère; anche qui, aiutato stavolta dalla malinconia dell'ultimo Sciascia, preferisce l' ambiente, e l'immagine, e il segreto; nel contrasto tra i dentro oppressivi e i fuori abbacinati della natura, mediati dal chiaroscuro dei vicoli, dei cortili, delle coscienze tormentate. La fotografia di Nardi è splendida, una Sicilia che è, vivaddio, tutta l'opposto di quella cartoillus_trata, per esempio, di Tornatore; e l'ambientazione è minuziosa senza dare nell'occhio (antiviscontiana). Credo che Amelio sia stato particolarmente attratto, lui mezzo- . siciliano, mi pare, dal piacere di poter ricostruire senza sfarzo una Sicilia quotidiana ma tutta datata al tempo dei suoi padri e nostri, ormai stra-ammazzata. Porte aperte è un film bello della sua lentezza e di un'efficacia che non è certamente quella del "cinema politico", ma di un cinema morale sì: di una morale sociale e, perché no, cinematografica, d'autore.

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