Linea d'ombra - anno VIII - n. 50 - giugno 1990

BUSTER·KEATON: IL RIGORE DELL'ASSURDO Carmelo Samonà Dedico questo breve profilo di Buster Keaton a Gabriele Baldini, in ricordo di un'amicizia in cui cinema e sale da concerto ebbero tanta parte e furono occasione di incontri per me indimenticabili. 1.Mattino.Alcentrodi unastanzaarredataconattentaparsimonia, le pareti avvolte in uno squallore meticoloso e irreale, un giovane è sedutoaccantoal proprioletto inabitodapasseggio,sulla testàuncappelloneroa faldelarghe. È inattesa.Il suovoltoesprime la concentrazionesevera di chi presenzia ad un rito; il suo corpo, immobile fino allo spasimo, ostenta una dignità che un filo di impercettibileangoscia passa da parte a parte. Lo spettatore è al corrente: conosce i termini di quel rito, la circostanza ideale, o miraggio, che racchiude l'immobilità, la concentrazione,l'angoscia. Sache il giovane sta aspettandoche la donnaamata lo chiami al telefono e acconsenta a uscire con lui. Ma il mistero delle immagini è così fitto che questa nozione non lo guida a nulla di prevedibile;anzi, lasciaampiomargineali' avventodi fattistupefacenti,di svolteincalcolabili.Quandoil telefonosquillaannunciando, finalmentela voce di lei, al giovanebasta udire leprimeparole: . "Ho disdettoquell'impegno, e se vuole..."; ed eccolobuttar via la cornetta, uscire in strada con forsennata violenza, gettarsi fra lampioni, automobili, passanti come in una corsa ad ostacoli, bruciarea perdifiatocentinaiadi_metri, forsechilometri,entrare in unportone,rallentare, fermarsi.E arrivatoalle spalledellaragazza, che nel frattempo ha continuatoa parlare senza rendersi conto di nulla, ed ora lo guarda, allibita. Il giovane fa ruotare fra le mani il cappello. "Mi scusi se sonoun poco in ritardo..." le dice serio, con una gravitàda cui non spiraombra di paradosso. Si tratta della sequenza centrale del Cameraman, il film che BusterKeaton girò, con la regia di Edward Sedgwyck,nel 1928. Sorpresi dalla focilità con cui si rinnova la nostra emozione a distanzadi quarant'anni, ci chiediamo inche cosa consista,al di là dei trattidi colorepiù ovvi, il linguaggiocheharesopossibilequesta gigantesca iperbole dell'amore, questa limpida trascrizionedella tenacia,della solitudine.disarmatadi un uomo. Inutilmenteproviamo a sfogliare i codici del cinemamuto: vi troviamo appena qualche rinvio lessicale, qualche suggerimento esterno. Non che manchino analogie fugaci, per esempio, con Chaplin;ma riguardanopiuttosto il Chaplindelle trovatefulminee, non quelloche costruisce,tuttointero,un racconto. In altrimomenti del Cameraman, il fazzolettorubatoper gettareinacqua il rivale, il giro di vite su se stesso che Keaton esegue per liberarsi dal poliziotto,sonocitazionidel grandemaestroa un livellodi repertorio corrente: non intaccano la sostanza del personaggio, non ne disegnanoinalcunmodolostile.L'arte diKeaton è altrove.Sei suoi filmpiùmaturi rappresentanouna fabbricadella comicitàriell'accezione più pura, è anche vero che non affidano i loro segreti all'improvvisazione del mimo né alla libera esecuzionedi gags. Malgradole corse vertiginosee qualchepiroettaminore, il Keaton del '28 e del '29 non è un acrobatanel senso classicodella parola. La sua arte, ormai avara di citazioniclownesche, si riassume tutta nella compostezzapuritana di un volto. Ed è noto: Hollywoodriuscì a degradare, a suo tempo, questa grande invenzione stilistica a livello di slogan pubblicitario, e persinodi clausola contrattuale: l'uomo che non ride mai. Ora la distanza del tempo ci viene in aiuto. Liberi dalle costrizioni più artificialidel mito, possiamo intuireche attorno a quel volto ruota 82 unsistemadi meccanismiregolatie precisi;che nulla è più lontano dall'arte di Keaton di una comicitàdel nonsorrisocome fortunato modulooccasionale. Il volto di Keaton, del resto, non è che un punto del sistema: è ilcentrodelcerchio. Vivedell'antagonismocheirradiaoscatenada sé versoglialtri,si rivelanelmisterodellapropriaimpassibilità,così univocae nobilmenteinfeconda,dinanzi alla multiformitàredditizia,ma scomposta,del mondo esterno. Ed è un contrasto_mortale, che non lascia residui. Lo stile dell'attore emerge, anzitutto, da questarelazioneprecariacon un altro da sé, che è tutto il reale che lo circonda. Ma è solo un punto di partenza: è la base per una tecnica di contrastiche accomuna, finqui, il suo universocomicocon quello di un Langdon o di un Chaplin, anch'essi, non meno di lui, disadattatie socialmentereietti.Il particolareaccentodi Keatonsta nellaqualitàdellasfida. La suasolareinadeguatezza è proporzionale allo sforzo indomito, alla meticolosa volontàdi inserimento in quellarealtà. Ecco il punto fondamentale.Per questo il suo personaggioelude ogni tentazionedi fogge aberranti,ogni ammicco a vistosi abbigliamentida guitto o da mendicante,ogni memoriadi lazzi da clown, di avanspettacoli. Egli sta giocando in qualche modo,con la realtàchepure gli è indecifrabilee oscura,unapartita alla pari. E non può travestirsi. Al personaggio apparentemente estroversodi Chaplin, costruito su una tastieradi carambolesche, portentoseesibizionida commediadell'arte, opponeI' introversione di una maschera taciturna, connotata su moduli di decoro borghese.Chaplin è unpellegrinoche arrivada lontanoe di volta in voltariparte,virtualmenteper sempre.Keatonoffre,invece,un'apparenzadi residente fisso di città popolose, con dati anagrafici in regola, persino col privilegiodi un mestiere avviato. Se viene da lontano, lo si suppone reduce, tutt'al più, di qualche comunità puritanadel Nord, magari si intravede in lui un pastore quacquero mancato, la cui maschera è altrettanto·plausibileper un corretto agenteassicurativo.A voler ridurre a una nozioneschematica,ma eloquente, il divario fra i due personaggi, si dirà che Chaplin è e rimane, anche culturalmente,un emigrato europeo, Keaton è un cittadinodegli StatiUniti d'America. E il cimentopiù arduo, nonostantele apparenze, è per Keaton. Costrettoad accettare le convenzioni della civiltà cui appartiene . come iscrittonei suoi registri, finisceper esserneespulso in modo ancorpiùradicalee rabbiosoquandoviene scopertala sua innocenza,quando è chiaroche in nessunmodoegli era statoali' altezzad~I gioco, e che il tentativo di decifrarne il linguaggio non era, m definitiva,che un bluff. A questopunto si ingaggia fra Keaton e la città una lotta senza quartiere: l'eroe non demorde quanto più la città, indifferenteo appena stupefattadal suocandore, lo respinge ai margini, o lo scavalca e lo ignora. Ad ogni disfatta, Keaton si rimetteal lavoroconunastrategiapiù scrupolosaeaggressiva,e con un distaccopiù consistentedal possesso reale di quegli oggetti. Maattenzione:egli approdaquasi sempre,a differenza di Chaplin, a un lieto fme senza riserve,.talvoltaaddiritturasmaccato.Ed è qualcosache sbocciadal suostessocandoredi eroevolenterosoe atipico, che può vincere all'improvviso perché il meccanismo gigantescoche gli sfuggiva di mano ha anche una sua palmare, clamorosa stupidità. È come la rivalsa illusoria del "visitato e estraneo"suidivietilinguistici,sullebarriereorganizzativeomorali che la società,le istituzionibenefiche,le macchine,le segreterie,le

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