IL CONTUTO Il tifo come malattia Il diario di uno Il sportivo" a cura di OrestePivetta La repubblica dei sotuttorivivrà in questi giorni attraverso una affermazione di totale e generale competenza, perché in questi giorni scoppia il mondiale, il mondiale di calcio, il Mundial, eccetera eccetera, e non c'è nessuno al mondo italiano (per gli altri paesi non giurerei) che non si riconosca esperto in materia, di storia e tecnica insieme. A testimonianza però della complessità e della dinamicità del reale, si accennerà a una mutazione. Un tempo, diciamo fino a una quindicina di anni fa, la conoscenza era propria delle classi basse, poi è salita alle classi medio-alte, frequentatrici le prime di "curve popolari" e di bar sport (un bianco macchiato, un amaro e gelati alemagna), le seconde di tribune numerate e piuttosto estranee alla chiacchiera di strada. Saltate le classi; in preda alla debolezza del pensiero; caduti con rumore gli orizzonti; finiti certi integralismi da parrocchia (anche sessantottina) quando si beveva la coca-cola perché la producevano gli americani e non si guardavano le partite perché il calcio era l'oppio dei popoli; educati da Rai Tre che ha proposto come proprio best seller la trasmissione più stupida e volgare dell'universo televisivo nazionale,[/ processo del Lunedì- la competenza ha travolto i confini. Anzi c'è chi ormai la sfodera come luminosa prova di anticonformismo, purché- è ovvio - venga reclamata con signorile distacco, estrema esalazione di saperi e di poteri ben più alti, generosa concessione di sé al popolino. O, piuttosto, un distillato, una bella metafora, dentro la quale chi sa potrà intravvedere abissali profondità di pensiero. Nel diffuso servilismo, conquista antica confermata dalla ·nostramodernità, è un sistema utile per stare in tribuna accanto ai potenti di varie razze, industriali e politici, che hanno tutti deciso di investire nello sport (guadagnandoci, è naturale), a miliardi e a parole. A miliardi e a parole, il mundial è iniziato da molto tempo, generando uno sperpero contro il quale nessuno, nemmeno il Pci, ha mai alzato un dito. Sarebbe stata, si può spiegare, una battaglia poco popolare. L'orgia autentica è di questi giorni, un'orgia trionfalistica di "sport y spettacolo", per citare Biscardi, quello del "Processo" (premiato con l'appuntamento quotidiano), fino alla nausea, senza possibilità di evasione, perché la regola vale per tutti, gazzette e tv di qualsiasi colore. Ci lasciamo una possibilità, solo morale, altamente simbolica, inefficace quindi con i tempi che corrono: un "Comitato di difesa dai mondiali" che ci offra almeno il fantasma di una resistenza. Non perché si abbia in odio il pallone, i Maradona o i Gullit, ma per prendere le distanze da tutti i cialtroni, i profittatori, i trafficoni, che ci inonderanno di balle e di retorica, a incremento del loro potere e dei loro quattrini. Diciamo basta (un'altra parola scomparsa dal vocabolario politico) e salviamo il salvabile (stavo per scrivere: le nostre anime). Lo scritto-testimonianza proposta da Colin Warde pubblicato su "Stearing In" con il titolo "Time Out" del 30 agosto - 6 settembre 1985, tratto daSteaming in thejournal of afootballfan (A tutto vapore, diario di un tifoso di calcio) non ci può consolare. Il protagonista, che è in fondo un moderato poco coinvolto, rappresenta una patetica folla di ubriaconi, piccole vittime smarrite lungo la strada di una politica che piace tanto in Italia. I "loro" morti (Hejsel e altri stadi) sembrano piuttosto le vittime di un FotoAli Sport(da "Time Out"), •"ordine" thatcheriano, che ha teorizzato per iscritto che gli stadi sono gabbie nelle quali i sottoproletari britannici possono con libertà esprimersi. Lui e i suoi compagni non sono ribelli. Perché la ribellione nasce da una coscienza che loro hanno smarrito. Sono solo degli esclusi, che si ritrovano nell'ultimo spazio, nell'ultimo brandello di spazio dove ancora possono usare la parola. Non so se stiano peggio o meglio di noi, che sembriamo per ora meno violenti (per quanto ancora?), meno nazionalisti (senza imperi da ricordare), più sobri senza le "venticinque chiare in corpo" che fanno la regola del perfetto hooligan. Però rischiamo di trovarci sulla stessa scena, perché il thatcherismo nostrano, in · attesa di qualcosa o della "cosa", resiste, invitandoci a naufragare, nell'abbondanza, in abiti Armani, nella stupidità televisiva, in fuoristrada, nella seconda casa, in tribuna numerata. Senza rabbia: il nostro paradiso lo viviamo con gioia e partecipazione. 21
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