ILCONTESTO Adriano Solri !foto Giacomino). te offre il dato certo senza il quale non si hanno i diritti e le possibilità di infilare i nomi e le date -con cui si ferma e si deposita l'avvenimento, ma in più ha il potere di semplificare e tranquillizzare il flusso altrimenti confuso della vita presente; anzi insegna un comportamento "da storico" che è meglio adottare se si vogliono evitare i facili errori e i difficili entusiasmi della vita. E se si vuole fermamente diventare più laici e più civili. Sarà per questo che, subito dopo il processo per l'uccisione di Calabresi, scriveva "La Repubblica": "Non chiedeteci quale sia la nostra opinione. In questo caso, dobbiamo sforzarci di non averne nessuna, se non vogliamo ripetere vecchi errori." La sentenza dunque "ci libera dal male": in questo senso va rispettata e magari va salutata per quello che è. Ce n'è sempre un sottile ma sentito bisogno. Lotta Continua, nel suo piccolo, era pur sempre un fenomeno, un movimento scomodo: i suoi difetti o i suoi meriti di empirismo, spontaneismo, gusto della provocazione e festa nella contraddizione la connotavano, almeno nella memoria, come una esperienza di difficile classificazione, come un ambito imprendibile nelle semplici maglie della nuova e urgente Storia da compilare. In più rischiava di restarle appiccicato un suo antico · e sempre possibile fascino: poteva confondersi con l'estremismo di una protesta anticonvenzionale, antiistituzionale, poteva evocare l'utopia e l'ansia dell'anarchia, la possibilità di una complessa e anche caotica convivenza di soggetti sociali e di spinte culturali e politiche tanto in contraddizione quanto in comunione, .la speranza o 1'illusione di poter praticare una opposizione diversa, di poter esercitare una critica negativa costante ... È un fatto che, almeno sul piano dello stereotipo che ha prodotto e lasciato, Lotta Continua aveva fatto della disubbidienza un valore (anche a partire dalla scoperta di "L' obbedienza non è più una virtù" e di altri testi ed esperienze più cattoliche che marxiste, come tutti sanno e ripetono senza troppo rifletterci su). La disubbidienza era una facile ma non superficiale bandiera di libertà illimitata e appunto di conflitto permanente: la 8 libertà e la lotta di chi si assumeva come "contrario" prima ancora di riconoscersi "altro" o "diverso", la libertà e la lotta di parole e gesti forse esagerati, forse inconcludenti e cattivi, ma certamente sempre indigesti. Anche per chi oggi vorrebbe semplicemente poterli registrare sotto un titolo, sistemare in un qualche fascicolo. È proprio questo risibile eppure importante compito che non si può assolvere dopo una sia pure globale e archiviata "sconfitta"; per portare a termine questa modesta ma non trascurabile incombenza serve invece senz'altro una "condanna". Non serve ripercorrere e riconoscere le varie e gravi colpe di Lotta Continua e dei suoi militanti, ma attribuire una colpa grave e precisa, e però proprio quella che comporta lo smascheramento di un'intera esperienza, di una complessa subcultura, come fosse stata la copertura e l'alibi di una fondamentale bugia. La bugia sulla violenza, la menzognera opposizione al terrorismo con cui Lotta Continua avrebbe infine tentato di nascondere persino a se stessa la propria vera vocazione e linea politica, oppure, nel migliore dei casi, di dimenticarla e rinnegarla inventandosi altre e "pentite" strategie. E il processo a Sofri, Pietrostefani, Bompressi e Marino è comunque senz'altro il processo a una o a molte bugie: questo eta in fondo da mostrare e dimostrare. Questo era sufficiente a coinvolgere molti altri, indefiniti e insospettabili partecipanti di un ''unica ininterrotta stagione di violenza e di lotta annata. Non si è trattato allora dell'ultimo capitolo di un giallo in cui si scoprono i colpevoli, ma di porre l'attentato a Calabresi nel primo capitolo di una storia finalmente tutta terrorista, paradossalmente meno spiegabile eppure più comprensibile. Adesso la gente e i giornali sanno cosa si deve pensare di tutto quel passato troppo prossimo: non hanno una prova ma, molto di più, hanno una condanna, che permette a sua volta di sentenziare come alla fine tutta quella piccola, confusa, generosa, inconcludente rivoluzione comportamentale (o "culturale"), ostinatamente datata '68 eppure confusamente prolungata fino a ieri, possa essere riassunta sotto la voce del "terrore", un po' come avviene per tutte le più grandi e storiche e vere rivoluzioni. Non hanno una prova ma non è questo che vogliono, non è questo che serve. Le prove fanno davvero discutere, le sentenze no. Citiamo ancora "La Repubblica" e impariamo finalmente a vivere e pensare come si deve: "Le sentenze non si esaltano né si deprecano. No, le sentenze vanno accettate per quello che sono: un giudizio di uomini su altri uomini, una riga tirata dopo un lungo lavoro, una decisione da accogliere con rispetto ma che può anche non rappresentare la conclusione giusta di una controversa vicenda giudiziaria." Le sentenze, molti si sono affrettati ad aggiungere, si succedono in una serie suscettibile di cambiamenti e di miglioramenti, ed è questo il bello della giustizia a confronto del brutto della verità. Proseguirà il dibattimento in appello e diminuiranno le responsabilità e le pene. Forse si negheranno quelle stesse verità e colpe su cui era pur doveroso che calasse una prima sentenza. Così va il mondo ed. è tempo che si impari una sospensione di giudizio in favore del fluttuare costante e leggero del dubbio. Un dubbio che non è più un'arma del pensiero, bensì la base di un atteggiamento di indifferenza e del rispetto per tutti e per tutto. Tutto quello che succede comunque è bene che sia chiaro, sia sentenziato. Qualcosa si deve pur scrivere infine in un libro di Storia!
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