Linea d'ombra - anno VIII - n. 49 - maggio 1990

STORIE/MANNUXZU tera vacanza qui dentro", le dissi. E dopo: "È stata una bella giornata, vi sono grato". Lei continuava a picchiare sulla tastiera, solo con gli indici, e a guardare lo schermo, sorridendo prima di rispondere: "Magari sarai anche un padre prodigo: però lo sai, non sono stato capace di uccidere vitelli grassi". Quando uscimmo era proprio notte. Il Children's Hospital, che raggiungemmo, si stagliava nei suoi due volumi, con tutte le finestre illuminate. Scendemmo anche noi, per salutare Lula, al vento un po' freddo che veniva dalla baia: "Grazie davvero", le ripetei. E poi lo dissi anche ali' indiano, mentre in automobile mi portava al Bart, rimasti soli: "Grazie". Pretese di farmi il biglietto e di accompagnarmi sino a uno dei varchi per i treni. Fu lì, prima che tendesse fa mano verso l_amia, che glielo domandai, guardandolo. di sotto in su: "Come sta Lula?" Anche lui mi guardò, con gli occhi marroni e fondi, dalle cornee opache in quella l4ce, come se ,ci pensasse, prima di rispondere: "Mi sembra che stia bene. E contenta". I 1giorno di Natale andammo a sud, con la loro vecchia automo,bile color becco d'oca, targata LUL eccetera. c'era ·ancora sole, però passavano nuvole: cambiava il tempo. "Speriamo che non scenda nebbia", Dar guidava al mio fianco e ai punti panoramici entrava nelle piazzole perché io, togliendo ogni volta macchine e obiettivi dal borsone,· potessi fotografare. L'oceano era laggiù, sotto le scarpate a strapiombo: con spiagge profonde e lunghissime, orlate dai ricami delle spume: deserte; o anche con rare preserrze umane, non più grandi d'un punto, idea dello spazio e della distanza. Più a sud la costa spariva, con l'orizzonte, dentro un vapore lilla che continuava nel mare: nebbia, appunto. Così avevo anche notato che l'automobile, cui ritornavo, era chiazzata di polvere, come se vi si fossero asciugate grosse e rade gocce di pioggia, la notte davanti alla loro casa di Berkeley; e che su quella polvere rappresa, biancastra, rimanevano disegnate impronte di uccelli marini. Lula talvolta restava ·seduta, in automobile, la testa bassa sulle carte geografiche, "il nostro pilota, - diceva Dar: -come sempre"; talvolta invece ne veniva via, dovevamo aspettarla se si inoltrava, e magari un po' scendeva, lungo il precipizio della costa. Allora - fu allora: spingeva giù un sasso con un piede, sporgendosi a guardarlo cadere - pensai che dentro di me continuavo a considerarla, qualunque cosa facessi e lei facesse, dovunque fosse, come convalescente. Poi l'asfalto si abbassava, si vedevano onde e spruzzi tra piccoli scogli, oltre il verde cosparso di fiori quasi mediterranei. Prendemmo il caffé, deviando verso la spiaggia: in una capanna di legno, sede di non so quale associazione faunistica. Non c'eravamo che noi: alle pareti tabelloni riproducevano serie colorate di uccelli e in aria stavano, fatti di carta, quegli stessi uccelli, sospesi a fili. Lì vendevano, anche: ne comprai uno a Lula, "Souvenir", e uno anche per me (che ne avrei fatto?). Le due grandi caffettiere bollivano sulla stufetta metallica. Lì la spiaggia era molto scura, traversata da un corso d'acqua limpido, quasi senza letto. Davanti, separato da un braccio di mare, si ergeva uno scoglio alto e tondeggiante, con la schiena imbiancata di guano; dove stavano a strillare molti uccelli veri, raramente levandosi in cielo. C'eravamo inoltrati, calpestando la sabbia dura: sulla quale rimanevano cumuli di strane alghe, 70 come tubi o serpenti morti. Lula me ne aveva parlato al telefono una sera, durante uno dei nostri colloqui domenicali da continente a continente (che avevano in genere argomenti simili): e ora, mentre ne raccoglieva, scalza, la fotografai più volte. Anche lei pretese di fotografarmi, dovetti prestarle una macchina, sorridere, promettere di mandarle le stampe. C'erano tanti mitili, in grandi famiglie, agglomerati neri e lucidi che davano problemi di esposizione fotografica: "Si mangiano?" Dar rispose che potevano essere velenosi, dipendeva dalla stagione o dalla specie. In tal modo continuammo a scèndere a sud, sempre con sole e qualche nuvola passeggera: e vedendo la nebbia sempre alla stessa distanza, come se ci precedesse e non volesse farsi precedere. Poi migliorò ancora; e quando arrivammo sulle arcate alte del ponte, il cielo era tutto libero, con un po' di foschia rosea che continuava a bordare l'orizzonte in basso tra mare e costa. Quello dunque era Big Sur; l'indiano ne pareva evidente sostenitore, contento che mi piacesse. Ci fermammo per colazione al Nepenthe, memoria di memorie (c'era la villa fatta costruire da Orson Welles per Rita Hayworth?); sulla terrazza con gli ombrelloni colorati e un alberello qualunque di Natale, dove sostava poca gente. Presi torta di banane, buona, dolcissima; loro due di mango e ribes, invece acidula, Lula aveva insistito perché ne assaggiassi dalla sua; le solite grandi tazze di caffé. Sì, mi piaceva. Mi misi a fotografare, dal parapetto, togliendo e innestando obiettivi, che puntavano sul Pacifico, sotto, verde giada tra le conifere, in apparenza mare familiare e non oceano, e sulla collina di frontv dal colore dorato, con chiazze opache di cespugli e alberi, contro l'azzurro fondo del cielo (ombra di ombre? Ventana Inn). Lula stava riversa nella sdraio, gli occhi chiusi, a prendere il sole; poggiati sul tavolino il gabbiano di carta che le avevo comprato e il fascio di carte geografiche; notai quanto fosse magra, nel solito abito nero di maglina, corto e senza maniche. "C'è un 'aria straordinaria, - commentai mentre la fotografavo, - leggera come in montagna, con questo sole". Fu allora che lo disse, aprendo gli occhi e sollevando la faccia per guardarmi: occhi improvvisamente distanti, faccia chiusa che non vedevo da tanto. E può darsi che motivo occasionale fosse l'accumulo di insofferenza per gli obiettivi. Disse che giorni prima due messicani, una coppia giovane, avevano portato il loro bambino all'ospedale; il primo, un maschietto di tre settimane; si erano accorti che aveva una pupilla dalla forma irregolare, allungata. C'erano stati dei controlli, l'ultimo in anestesia ieri mattina: il bambino era nato senza retine, non avrebbe mai visto. "E non è possibile un intervento?" domandai. "Neanche se a farlo vengono i marziani", rispose, mi guardava o anzi non mi guardava ancora in quel modo prima di richiudere gli occhi: sapevo che poteva comportarsi come se di ciò che l'offendeva avesse colpa l'interlocutore; e che il conto aperto con me era specifico e forse meno irragionevole. Restò dunque questo, nella terrazza del Nepenthe di Big Sur, dove lei prendeva il sole immobile sulla sdraio, Dar leggeva il giornale e io mi ero rimesso a fotografare attorno. Passò del tempo e riaprì gli occhi, tirando giù le gambe che aveva distese, le ginocchia nude strette, per rivolgersi ancora verso di me, fuori da ogni apparente articolazione logica del discorso; ma io sapevo che una logica doveva esserci, come dovevano essere

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==