LA FIGLIA AME·RICANA Salvatore Mannuzzu Spesso esistono alternative, ma scegliere non è facile: e (persino) quanto è disponibile può dispiacere nello stesso modo. Mettiamo il menù che la hostess aveva offerto, assai sbrigativamente: lasagna sommersa da una béchamel orrida, frammista a chissà quale carne tritata; e pollo greve, nel suo riso, di analogo ripieno e pelle grassa. Era il lunch, era il dinner? Fuori degli oblò il tramonto non finiva mai, grandi barbagli filtravano attardandosi tra cumuli fermi di nuvole. Fu nel tepore di quei riflessi, ancora, che incominciò il ritiro delle cuffie noleggiate per il film; intanto, da ogni prospettiva, la cabina rivelava il disastro di quelle ore di volo: nulla di peggio delle colonie umane. E passò di corsa, seguito dalla tutrice placida, venendo da una toeletta che immagino aveva ben contribuito ad allagare, il bimbetto lillipuziano vestito da babbo Natale: quanti anni poteva avere? Ma si era messo comodo, lasciando nel bagaglio a m·anocappuccio con cernecchi e barba bianca. Sì, avevo un po' di paura, quelli che finora ho detto ne erano i segni. Una paura, una stretta al cuore, che non nominavo nemmeno con me stesso, ora che iniziava l'atterraggio e finalmente scendeva sera. Dopo cresceva, così senza nome, quando avanzavo nella fila di passeggeri carichi - tra sedili devastati definitivamente, relitti di plaids e giornali-verso l'uscita; e poi nella manica che ci avrebbe condotti dentro l'aerostazione. Scarsi decori natalizi, lì nella rotonda all'insegna della compagnia: un alberello smilzo con qualche pallina, una più visibile scritta dorata (nemmeno tanto visibile). Era diventato un volo interno, senza controlli di passaporti né dogana. Dunque qualcuno aspettava chi doveva sbucare da quella porta, fra due hostess messe ai lati, perennemente sorridenti e salutanti - come se da un 'unica cosa ricevessero sollievo: dalla definitività del commiato, dalla certezza di non rivedere più nessuno di noi. Non c'era, però, chi mi attendesse. Ho detto paura? Cercai di leggere le indicazioni dei cartelli, seguii comunque il flusso degli altri viaggiatori. . Mi sembra che subito ci fosse una scala mobile, in assai lunga discesa; dopo, uno stanzone con dei bar, vastissimo, non troppa gente: palme finte e Merry Christmas (era questa la California?); e, dopo, un tapis-roulant infinito: che procedeva senza speranze nella blandizia di una musica soft. Si sbucò in una sorta di corridoio, pure immenso: lì, sotto una specie di arco, inalberando palloncini argentati a forma tli cuore, due o tre persone ne aspettavano altre. Altre, non me. Ma se era paura, non dipendeva da questo: avevo l'indirizzo del mio albergo, sapevo che mi ci sarei fatto portare da un taxi e che le avrei telefonato. Invece, sotto l'arco successivo subito la vidi: sorridente, nella sua gonna corta, pullover bianco a maglia larga e niente calze: "Papà!" accostò la guancia alla mia, era così che ci baciavamo (scontrando i nostri occhiali). E vidi anche lui, che mi sorrideva, il candore dei denti esaltato dal bruno del viso: mi strinse la mano, tanto alto e un po' rigido, presentandosi: "Dar".(per telefono lei aveva riso quando lo avevo creduto un nome indiano: "È il diminutivo di Darwin, si chiama così"; come quando dopo le avevo domandato: "D'America od' Asia?" "Purtroppo non è nemmeno pellerossa, papà. Indiano vero". L'avevo sentita tornare seria nel dirmi: "Stiamo insieme da più di un anno"). La restituzione dei bagagli avveniva ancora oltre. Mentre il 66 nastro girava girava le raccontai del bambino babbo Natale e se ne divertì molto, cercò in tutti i modi di vederlo: sporgendosi di qui e di là, invano. Dar volle portarmi la valigia. Fu in un sottopassaggio verso il garage che - non si sa per quale caso - incontrammo quel bambino, tenuto per una mano dalla signora che avevo già visto con lui e per l'altra da un omaccione ancora più grande: dunque minimo, non più di due palmi da terra, con il cappuccio tintinnante d'un campanellino e, s'intende, la barba a riccioli di lana bianca; però in lacrime. "Non esiste!" lei quasi gridò, troppo, mi parve. L'automobile era quella che mi aveva descritto, color becco d'oca e con quasi tutte le lettere del suo nome sulla targa: LUL, più qualche cifra. Guidò lui e lei insistè perché sedessi davanti. Il traffico si svolgeva su molte corsie, fitto, rapido. Dopo un po' costeggiammo la baia e apparvero le collin_edella città, straordinariamente scintillanti di luci, nella notte tersa: e in uno straordinario silenzio. Non dissi, come forse mi ero preparato, di Maometto e della montagna (se poi le montagne erano quelle). Invece le domandai del suo Children's Hospital: sapevo che l'iniziale condiscendenza deUe risposte diventava determinazione persino un po' fanatica, nel dare notizie con progressiva concitazione; e che non mi avrebbe mai detto altro di sé. Domandai anche a lui, dei suoi studi e dell'università. Così in breve arrivammo all'albergo, riconobbi il lift di cartone a grandezza naturale, sul marciapiede vicino ali' ingresso: sempre ammiccante. La via era percorsa da un vento tagliente e, secondo un nostro rito, glielo dissi, mentre nella gonna corta e nel golfino di cotone mi scaricava la valigia: "Ma non hai freddo?" Mi accompagnarono, fu lei che si rivolse al portiere per l'accettazione: riconobbi, dietro, anche il grande specchio, a riquadri delimitati da vecchie cromature, e in esso le nostre immagini, sotto gli ovvi festoni, ora. E così, dopo i saluti, fui nella camera che mi era destinata: riconobbi anche quella? A fronteggiare lo sbalzo dei fusi orari da solo, con le mie pastigliette, che già prima di spogliarmi avevo poggiato sul cassettone sconosciuto. Ma non era più paura, più (quasi) stretta al cuore: solo l'ombra, lunga e immobile, cui ero abituato. Poco più in su dell'albergo c'era un fast food, al mattino chiuso e buio, se ne vedevano solo le sedie, d'un falsissimo Thonet, capovolte e poggiate ai tavolini dietro la grande vetrina; c'era un negozio di ornamenti navajos e·altre curiosità; e c'era una specie di grande emporio di elettronica, con scritte plurilingui e telecamere rivolte ali' esterno: mi trovavo ripetuto in tutti. i video esposti, con gli altri passanti, fu lì che comprai le pellicole. Era il primo tratto della Powell, passava scampanando il cable car, tram a cavo, con i suoi grappoli di passeggeri appesi: al capolinea, in fondo, sostava già a quell'ora l'ordinata fila di turisti in attesa. E già a quell'ora, nella strada che rimaneva in ombra, si udiva \a musica delle monetine scosse dentro i barattoli-salvadanai dai questuanti: "Change! change!" Homeless, senza casa - poi doveva insistere Dar -: categoria umana, specie nota dovunque; ma qui il numero, più alto di quanto ricordassi, comportava differenze qualitative essenziali, ne faceva una varietà a sé: e una nota frequente del paesaggio.
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