allora, per uno scrittore catalano. Naturalmente io ignoravo, in linea di massima, la sua situazione economica. Ma da quanto lei stessa diceva, dopo la miseria degli anni del dopoguerra e la modesta permanenza a Ginevra, per la prima volta poteva - compiuti i sessant'anni - fare un progetto di vita definitivo. Per questo, però, aveva bisogno di una casa in una posizione particolarmente soddisfacente. Per ragioni che spiegherò fra breve, ho seguito da vicino quasi tutto il processo di costruzione della casa, partecipandovi nella misura delle sue confidenze. Grazie ai frequenti viaggi che facevo a Romanyà, ho potuto vedere il terreno che aveva scelto e iv ari stadi della costruzione della casa; la massima felicità che ho scoperto in quella donna insolitamente ani~ata è stata durante la realizzazione del progetto. Devo aggiungere che, nella misura in cui vi ho partecipato, ha influito il fatto che, essendo direttore letterario della casa editrice che aveva pubblicato una parte dei suoi libri, abbiamo dovuto parlare di soldi, e, benché io non fossi responsabile della parte economica dell'impresa, era evidente che passavano personalmente attraverso di me-poiché era .più comodo per lei - i miglioramenti delle condizioni contrattuali, che si sono sempre adeguate alle sue necessità. Meglio di me sicuramente Joan Sales potrebbe spiegare questa vicenda nei suoi aspetti economici. Il terreno e la posizione della futura casa erano eccezionali. Situata nella parte alta di Romanyà, la vista è bellissima. L'appartamento di Ginevra, che Mercè mi diceva che per molti anni era stato per lei la Catalogna, era diventato adesso uno chalet che dominava visivamente una grande estensione del paese. Non so chi le abbia disegnato la casa, abbastanza convenzionale ma molto·comoda: ma la situazione giustificava una certa mancanza di personalità della residenza. Me I'irrimagino e me l'immaginerò sempre come punto di osservazione sulla Catalogna, propizio alla riflessione e alla gioia. Verso oriente, sul mare, dicono che in una giornata luminosa si può vedere il profilo dell'isola di Maiorca, e a ponente, sopra le cime delle Gavarres, il Montseny e, con il bel tempo, ilMontserrat sullo sfondo. Verso nord si vedono i Pirenei e la costa, forse fino al golfo di Roses. Alla casa si arrivava non senza difficoltà per chi non v'era abituato. Tre o quattro sentieri dopo la locanda confondevano il cammino senza condurre da nessuna parte. Un giorno che pioveva ci siamo persi, mentre andavo a trovada con i Gimferrer, per cenare prima in paese e poi per discutere a casa sua la traduzione castigliana di Specchio rotto, che Pere stava completando. · Adesso vedo lo chalet come se ci fossi andato tutta la vita. Si entrava in giardino per un cancelJetto di legno, rigorosamente sorvegliato da un cane spaventoso, destinato ad allontanare qualunque visitatore. Subito dopo il cancello si poteva lasciare la macchina, perché la parte che guardava a ponente era abbastanza ampia. Ma né i latrati del cane né il rumore dell'auto erano sempre sufficienti ad avvertire Mercè dell'arrivo dei visitatori, a causa della sua sordità. In genere bisognava suonare il campanello con insistenza per veder apparire la padrona di casa. Ricordo che un giorno l'abbiamo sorpresa con la porta aperta e la rivista della Tv in mano: stava cercando l'ora a cui trasmettevano un film- non so quale - che le interessava particolarmente. Si salivano dei gradini, prima di entrare in casa, e a sinistra c'era una terrazza che dava a nord, destinata specialmente ai giorni d'estate. A destra ce n'era un'altra, rivolta a mezzogiorno. La parte di dietro, con un'altra terrazza, guardava il mare. Una casa così, ai quattro venti, e a cinquecento metri d'altitudine, isolata dal paese, era una pura delizia di solitudine; tra l'altro non si vedeva neppure Romanyà, che restava sotto, persa fra la boscaglia. E c'era il giardino. Un giardino più sopra che vicino al mare, perché la costa di San Feliu de Guìxols si vedeva giù in basso, lontana, ad alcuni chilometri in linea d'aria. Mercè si lamentava perché le piante crescevano lentamente. Non è necessario ricordare la sua passione per i giardini, le piante e i fiori, evidenziata in tutta la sua opera. Di conseguenza non è azzardato affermare che la cosa che più le piaceva di tutto lo chalet era proprio il giardino, al quale dedicava molte ore al giorno. La prima cosa SAGGI/CASTELLET che faceva, appena alzata - alle sei o alle sette -, era annaffiare le piante. Più tardi sistemava i fiori e seguiva la loro crescita giorno per giorno-e la fioritura, al momento giusto, quando dovevano. Mostrava la casa ai pochi visitatori che vi arrivavano, ma ciò che faceva vedere in maniera più particolareggiata era il giardino, ancora non del tutto firùto, secondo l'idea che aveva, quando è morta. Lei stessa si vedeva come il giardirùere di Giardino sul mare , chiedendo in continuazione: "Vicino alla parete più alta cosa vuole che le pianti, buganvillee o glicine?" E lei stessa si rispondeva: "Non fare tanto l'innocente ... Non vedi che vicino alla parete più alta I'urùca cosa che si può piantare sono campi di nuvole e stelle?" Penso che nella sua casa di Romanyà sia stata felice. L'inverno era duro, soprattutto quando soffiava la tramontana. Per questo, gli ultimi anni, verùva a Barcellona - se poteva, senza farlo sapere a nessuno - nei mesi di gennaio e febbraio. Il resto dell'anno viveva a Romanyà, senza quasi uscirne. Con la vettura di Carme Manrubia scendeva tutti i sabati a San Feliu, a comprare vettovaglie per tutta la settimana. Qualche giorno andava a pranzo alla locanda, sempre più raramente. Ma le riservavano ugualmente un tavolino rotondo in un angolo della sala, sotto un orologio a pendolo, vicino al caminetto. Ayeva l'abitudine ancestrale - degli ospiti antichi - di farti mangiare le cose migliori e più care, e sempre le sembrava - a lei che mangiava poco - che non ti levassi la fame.D'estate pranzavamo sul terrazzo posteriore della locanda, sempre più fresco della sala. Come ho detto, il rituale consisteva nel tornare poi a casa sua a prendere il caffè e un liquore e a chiacchierare un po', mai più di un paio d'ore. All'improvviso passava un angelo-doveva essere uno dei suoi, particolarmente ispiratore - e si capiva che la visita era finita. Sotto il sole di ponente facevamo un 'ultima passeggiata in giardino, salivamo in macchina e la !asciavamo come l'avevamo trovata: sola, mentre entrava in casa, affondando nella sua solitudine, che era la sua vita. L'interno della casa era estremamente Iuminoso, com'era naturale in una dimora esposta ai quattro venti. Io le invidiavo tutto: il salotto spaziosissimo, la sua camera, l'angolo protetto in cui scriveva a macchina. Anche la biblioteca - dove erano arrivati i libri della chambre à bonne di Parigi-, molto irregolare per quanto riguardai! contenuto, con libri francesi e inglesi, soprattutto. Dalla biblioteca si indovinava la lacerazione dell'esilio: c'erano pochi libri in catalano e in castigliano. Quelli indispensabili c'erano tutti, però. E anche una grande quantità di romanzi polizieschi, inglesi e francesi: un giorno bisognerà parlare della grande influenza di questo genere su molti scrittori. Influenza indiretta, certamente, ma che mi sembra provenire - a me, lettore - da due fatti fondamentali: la narratività di base (si tratta di raccontare storie) e il mistero (essenza della riveiazione di un mondo, cioè di un enigma). Il mistero: un erùgma o un segreto? Ineluttabilmente, devo tornare alla "segretezza" della Rodoreda. Penso che vi sia un suo scritto - a cui ho fatto riferimento in queste righe - che non è stato ben compreso, nel momento della sua pubblicazione. Si tratta del prologo di Specchio rotto. In queste pagine che precedono il romanzo, la Rodoreda parla un po' a ruota libera delle sue idee letterarie. Verso la fine, però, si riferisce esplicitamente alla presenza degli angeli e delle metamorfosi nei suoi libri. Il fatto è che poco prima della sua malattia e della sua morte abbiamo avuto occasione di tornare a parlare diverse volte dei segreti o della segretezza. del personaggio. Molas, d'altra parte, che era stato il primo di noi a conoscere la Rodoreda, aveva dati e documenti, oltre al ricordo di numerose conversaziorù con lei. E conosceva anche un'altra delle amiche di Mercè, Susina Amat, che sarebbe sopravvissuta alla Rodoreda soltanto pochi mesi. Anchè Carme la conobbe. S'intravvedeva, a quanto sembrava, attraverso le indagini di Carme, un segreto o un mistero. Finché un giorno avvenne la "scoperta": Mercè era amica dei Rosacroce locali e forse praticava perfino qualche rito di questa setta occultista. Quando Carme me _lo disse per telefono, pensai che non 61
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