SAGGI/CASTEWT a far parte del "Concistoro dei Giochi Floreali" che ancora si celebravano in esilio. Ricordo il fano dei Giochi Floreali perché tutto sommato - tranne la visita alla vecchia signora - diventò una storia grottesca. Già Io erano un po• i Giochi in sé e non solo per la cerimonia pacchiana della festa della premiazione, ma anche perché era inconcepibile che quella rievocazione del passato non potesse celebrarsi in Catalogna in condizioni di libertà. Il più grottesco però fu che il governo franchista, che non doveva avere preoccupazioni più importanti, inflisse a ciascuno dei membri del Concistoro - al nostro ritorno a Barcellona- una multa di duecento mila pesetas (dell'epoca), oltre al ritiro del passaporto, nel caso fossimo recidivi nel dedicarci a sì pericolose attività sovversive: non conosco nessun altro caso di repressione per la partecipazione alla giuria di un premio letterario, tranne quello di Juan Carlos Onetti, lo scrittore uruguaiano, a cui il fatto di aver premiato non so che racconto o romanzo costò la prigione e poi l'esilio. A parte l'aneddoto grottesco, ciò che per me divenne importante di quel viaggio a Ginevra fu la lunga visita che Isabel e io facemmo alla Rodoreda. Ci eravamo incontrati la sera prima alla festa dei Giochi Floreali. Mercè vestiva come non l'ho mai più vista vestire, un po' démodée, come se avesse tolto dall'armadio un "vestito" che non si metteva mai- giacché non faceva vita di società-e che doveva avere da molto tempo, alla moda centroeuropea degli anni Cinquanta: una signora straniera, ai nostri occhi, con l'aspetto più vecchio dell'età che aveva e quell'aria persa e il sorriso contratto che le si vedeva sempre quando era circondata di gente. Era evidente anche che tra tutti quei catalani svizzeri o che erano venuti da altri paesi o dalla-stessa Catalogna si sentiva un po' straniera - lei che viveva lì! -perché ne conosceva solo qualcuno: la gente le si avvicinava per salutare una concittadina di Ginevra che non avevano occasione di vedere quasi mai. Ci invitò a prendere il tè il pomeriggio seguente per parlare con più calma. L'indirizzo lo conoscevo già, perché ci scrivevamo di tanto in tanto, ma mi indicò la strada che dovevo fare e mi disse il piano e il numero dell'appartamento in cui viveva: "Sulla porta - mi disse - troverai una targhetta col nome di Prat (che era il vero cognome di Obiols ). Non ho voluto toglierla-'- aggiunse -perché abbiamo vissuto lì molti anni. Dopo quelli dell'infanzia, i più tranquilli della mia vita." Non disse "felici" sicuramente perché aveva già detto molto e forse perché, dopo una vita abbastanza avventurosa, la tranquillità era la sua massima aspirazione. Tutto questo fu chiarito il pomeriggio seguente durante la conversazione. Prima però si erano verificati due fatti: uno, lo sfasamento d'orario e la peripezia della merend·a. e l'altro, molto sorprendentemente, la sparizione della targhetta con il nome di Prat. Il primo doveva essere ancora colpa nostra, come la cena di Barcellona. Il fatto è che avevamo pranzato con lgnacio Carles-Tolrà, un vecchio amico di Barcellona, che una volta sperperata l'eredità familiare aveva agito in maniera insolita tra la gente della sua classe sociale. Piuttosto che vivere tra le difficoltà a Barcellona, aveva_preferito emigrare in Svizzera come lavoratore manuale e rifarsi la vita come poteva. Era stato spazzino a Ginevra, commesso in un magazzino e, in quel momento, faceva il meccanico per la Croce Rossa Internazionale. Amateur e collezionista d'arte, aveva venduto nel momento del crollo i Picasso, i Mirò e i Tàpies che aveva e in seguito ,.nelle lunghe ore di solitudine da emigrato a Ginevra, aveva cominciato a dipingere. Faceva dei quadri d'art brut, molto vicini a Dubuffet, non senza grazia. Alla sua maniera era felice, non rimpiangeva affatto l'epoca in cui era un senorito, e finì per esporre in diverse gallerie, con modestia e tenacia. Alla fine del pranzo, durante il quale ~i aveva spiegato tutte queste cose, andammo a casa sua per vedere gli ultimi quadri che aveva dipinto. Comunque verso le cinque, l'ora del tè, andammo verso la casa della Rodoreda. Una targhetta con scritto "Rodoreda" aveva sostituito - si vedevano ancora i segni lasciati da quella di prima-il nome di Prat. Ci aspettava già da un po•. Questa volta però non capitava niente di grave, 58 • tranne per noi che avevamo appena finito di pranzare e ci vedemmo minacciati da un vassoio immenso, carico non solo di paste da tè, ma anche di panini al prosciutto e formaggio, capace di alimentare un reggimento. Pensammo che avesse invitato a merenda-quello non era "prendere il tè" - altra gente, ma non comparve nessun altro: era evidente che tutta qJ.1ellaroba era destinata a noi. Di conseguenza, tentammo di ritardare come potevamo tè e panini e cominciammo una lunga conversazione durante la quale venne fuori buona parte di quello che abbiamo saputo poi della sua vita. Viveva in un appartamento che consisteva in un unico grande locale, con il terrazzo corrispondente, la cucina e i servizi. Il divano, ampio e pieno di cuscini,- serviva anche da letto, accantonato nell'angolo destro del fa stanza, verso il balcone. Dall'altra parte, in diagonale verso sinistra, c •era un tavolino co·nla macchina da scrivere. Il resto erano scaffali pieni di libri. Un gran mazzo di fiori secchi e molto vari si profilava contro la luce della porta a vetri che dava sul terrazzo. Bisogna dire che tutto era armonioso e spirava un ordine tranquillo. Probabilmente perché Obiols era morto da poco, la Rodoreda, alla ricerca di ricordi, parlò più di quanto era solita fare. Parlò, soprattutto, della guerra e dell'esilio, dei primi, durissimi tempi della guerra mondiale, quando avevano internato Obiols in un campo di concentramento e lei si guadagnava la vita, a Limoges, mi sembra, cucendo. Parlò anche della ripresa della "Revista de Catalunya", che dirigevano entrambi a Parigi alla fine della seconda guerra mondiale. Ci smitizzò - e questo curiosamente spiaceva più a noi che a lei-il suo incarico al Commissariato di Propaganda e all'Istituzione di Lettere Catalane: "Gli ultimi giorni, •' siccome faceva un freddo cane, Oliver e io, che eravamo i permanenti,
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