come e quanto - ma anche perché era evidente che, per ragioni misteriose, ci aveva scelto. Non parlo adesso degli amici - o meglio delle amiche - di "prima", ma di quelli di "dopo". La censura della guerra e dell'esilio era evidente nella sua vita e nei suoi discorsi: parlava degli uni e degli altri come di persone appartenenti a mondi diversi, essendo, mi pare, la differenza basilare che gli uni venivano da una certa storia che la legava a certi momenti determinanti e non sempre piacevoli della sua vita, e gli altri da una libera scelta, senza compromessi e, meno ancora, obblighi di alcun tipo. Fummo, in questi ultimi anni, la compagnia effimera, un punto di riferimento diverso, volutamente limitato nel numero di persone e nel tempo. Non un gran che, forse, giacché non ricorse a noi neanche quando si vide perduta, "per non disturbare", come ci disse alla clinica. A volte penso che avremmo perfino potuto darci del Lei e che la sfumatura del tu non era tanto una concessione ai tempi quanto un primo passo verso i confini dell'amicizia. IIL asciatemi, oh, lasciatemi coi miei dolori!": è un'altra citazione da Sterne che troviamo in Specchio rotto. Non chiedeva di più, privatamente, perché nei suoi libri aveva già detto tutto. Ora, mentre scrivo queste righe, alcuni giorni dopo i capoversi iniziali, mi sorprendo di essere caduto anch'io nella trappola, di essermi lasciato impressionare, negli ultimi momenti della sua vita e nei giorni successivi alla sua morte, dalla segretezza sociale che distingueva il personaggio: Nei vent'anni che è durata la nostra conoscenza, solo raramente avevamo parlato, tra gli amici, degli aneddoti, poi mitizzati, di quella che potremmo chiamare "una vita di donna". Forse l'intervento di alcuni giornalisti nella sua storia personale ha risvegliato ora una curiosità particolare di pettegolezzi superficiali: una ragazza, sedotta o obbligata, si sposa con uno zio; hanno un figlio; in seguito, questa ragazza rompe con la sua famiglia, se ne va con un altro uomo-l'amore di tutta una vita-e intraprende un lungo esilio, esteriormente affatto grigio e modesto in tutti gli aspetti quotidiani. Una storia volgare, come quella di Colometa, la protagonista di La piazza del diamanle, la quale è preceduta da un'altra citazione significativa: "My dear, these things are life". La vita, evidentemente, è fatta di queste cose. E questo è tutto, di fronte al pubblico. Il resto è un'altra storia: la vita interiore, le passioni, le ossessioni, l'amore ... E il diritto al) 'intimità, strenuamente difeso da quella ragazza che un giorno era fuggita da una famiglia forse non voluta per poter vivere la sua vita. Curiosamente però i pettegolezzi dell'ultima ora, l'apparizione pubblica del figlio o l'attesa finale di un testamento di cui si ignoravano i termini, hanno provocato un'interpretazione tipica della morale sociale cattolica che non manca di urt' irritante conclusione: e' era stato peccato originale - l'adulterio, la fuga- c'era stata, per di più, trasgressione biologica - la consanguineità-e e 'è stato il castigo finale- la pazzia del figlio. Così si chiudeva perfettamente il ciclo di una vita che era stata condannata dalla società letteraria catalana più retrograda del dopoguerra. Ormai nessuno se ne ricorda, ma la Rodoreda, se mai ~ene parlava, era stata considerata persona IIOf! grata da molti dei sopravvissuti alla disfatta. Fu il pubblico, i suoi lettori, a riscattarla, finalmente, e a riconoscerla come la grande scrittrice che era. Di questo avevamo parlato. La Rodoreda era perfettamente consapevole dell'accoglienza fredda e distante al momento del suo ritorno, e a volte le sfuggivano i nomi. Mi rammentava il ritorno di Joan O!iver dal Cile, nel 1948: gli avevano letteralmente fatto il vuoto intorno. Per quanto riguarda Oliver, lo riscattarono e resuscitarono i lettori e i giovani più tardi, ma la cosiddetta società letteraria - a parte, naturalmente, alcune eccezioni - non lo tollerò se non dopo anni. Io non sono la persona più adatta a raccontare questi rifiuti, perché non li ho vissuti da vicino.Mac'è, ancora, chi può spiegare le cose, e prima o poi dovrà farlo. Ho conosciuto Mercè Rodoreda verso la metà degli anni Sessanta, a Barcellona. Non ricordo esattamente quando e come, il che vuol dire che dovette essere un incontro casuale o in rapporto a qualche problema editoriale. Mi sembrò una donna simpatica ma un po' asciutta e distante, SAGGI/CASTELLET come lontana da molte cose. In quel periodo veniva a Barcellona di tanto in tanto da Ginevra, dove risiedeva abitualmente. Non ricordo di aver avuto lunghi colloqui con lei, in quegli anni, néda solo né con altri. Aquel tempo si imponeva un atteggiamento un po' convenzionale, che poi le vidi usare con altra gente. Fu perciò solo qualche anno dopo che capii che, in seguito, avrei potuto rivolgerle amicizia e affetto e, per così dire, senza darle fastidio, come diceva che le dava la gente. Più tardi ancora mi sorpresi che fosse lei a venire da me, quando era a Barcellona, o che mi chiamasse daRomanyàde la Selva per reclamare una visita differita oper invitarci, !sabei e me, a cena e a parlare un po', dopo, prendendo il caffè a casa sua. Il ricordo del mio rapporto con la Rodoreda passa per una serie di fatti banali, forse, ma che mi hanno aiutato a conoscerla più per i suoi atteggiamenti e comportamenti che non per ciò che lei - tranne una sera a Ginevra - mi ha detto. Per esempio, penso a una cena a casa sua, a Barcellona, a cui eravamo stati invitati Joaquim Molas, !sabei e io. Siccome sono un po' maniaco della precisione e lei non aveva il telefono, tutto era stato convenuto più volte, sia il giorno che l'ora. Ma doveva esserci stato un piccolo malinteso a proposito di quest'ultimo dettaglio: mi sembra di ricordare che, com'è l'abitudine in questa città e in tutta la Catalogna, eravamo rimasti d'accordo per le "nove, nove e mezza". Invece, ho capito dopo a causa di altri avvenimenti insignificanti, la Rodoreda viveva legata ai precisi orari svizzeri e questo fatto delle "nove, nove e mezza" non le garbava. Per mettere il cacio sui maccheroni, Molas, che allora viveva a Consell de Cent/Roger de Fior, aveva deciso di passare a prendere !sabei e me a casa nostra, alcuni isolati più su. Bisogna aggiungere che Joaquim Molas non si è mai fatto notare per la sua puntualità e ci è venuto a prendere un po' più tardi del previsto. La conseguenza fu che invece delle "nove, nove e mezza", ci presentammo a casa della Rodoreda alle "nove e mezza, dieci", piuttosto verso la fine del periodo di tempo indicato da questa espressione, imprecisa quanto si vuole, ma che in Catalogna ha sempre funzionato. In ogni caso arrivammo prima che chiudessero la portineria. Nell'aprirci, la Rodoreda restò sorpresa: "Credevo che ormai non veniste più, di aver sbagliato giorno. Entrate, entrate, apparecchio di nuovo la tavola e vi scaldo la cena. Io ho già cenato, pensavo che non veniste più. Stavo ascoltando della musica." Beh, non c'è bisogno di dire che siamo rimasti di sasso. Era tardi, certo, però non c'era dubbio che eravamo d'accordo per quel giorno e, più o meno, per quell'ora. D'altra parte, le avevamo inviato un ramo di fiori a mezzo giorno e, senon l'ora, almeno iIgiorno era tacitamente confermato da quel fatto. Mentre noi non sapevamo cosa fare dalla vergogna, Mercè si rimboccò le maniche e come se niente fosse riapparecchiò la tavola e ci servì l'eccellente cena che ci aveva preparato molto tempo prima. Faceva da cuoca e da cameriera insieme, servendoci il primo piatto mentre scaldava il secondo. Tra il suo andare e venire -non eravamo mai stati serviti da una cameriera così illustre! - facevamo il conto di quanto e' era voluto per cucinare la cena, preparare la tavola, aspettarci, decidere che non saremmo venuti, cenare, sparecchiare e mettersi ad ascoltare musica ... Era evidente che ci aveva aspettato al massimo per le "sette e mezza, otto", ora che già doveva essere tarda per le sue abitudini ginevrine. Alla fine non successe niente di male, e prendemmo il caffè e restammo a parlare fino al mattino. Però, al di là del nostro maleducato ritardo, ci rimase l'impressione che l'orario svizzero non bastasse per giustificare quello sfasamento temporale. Anni dopo, quando ci spiegò la vita che conduceva a Romanyà, capimmo la libertà d'orario che implicava la solitudine, soprattutto in campagna: non aveva ore-felice lei! - giacché si alzava molto presto, curava i fiori, faceva colazione, leggeva, pranzava o cenava quando aveva fame, scriveva, guardava la televisione o ascoltava musica quando ne aveva voglia, e così passavano i giorni, senza altra scansione che l'alba e il tramonto, il giorno e la notte, le stagioni. Un altro sfasamento d'orario fu quello di una merenda a Ginevra, l'unica volta che la visitai in Svizzera. Era il 1973. Io ero stato chiamato 57
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