SAGGI/CASTELLIT Dal cimitero di Romanyà de la Selva camminammo lentamente per un chilometro scarso, fino al paese, in un giorno splendente di primavera. Eravamo- un_gruppetto, i resti della gente che era venuta a salutare le spoglie di Mercè Rodoreda al minuscolo cimitero di Romanyà, tra le Gavarres. Non avevamo nessuna fretta, e alcuni di noi pensavano che stavamo prendendo commiato definitivamente dai pellegrinaggi quasi rituali che ci avevano condotto a Romanyà, negli ultimi anni, a visitare la Rodoreda. Era stato un addio tranquillo, senza la tensione di quello di sei giorni prima, alla clinica Mufioz di Girona. Carme, Molas, Isabel [Carme Amau è l'autrice del saggio a tutt'oggi più completo e convincente sull'opera della Rodoreda, lntroducciò a la narrativa de M. R.: el mite de la infantesa Edicions 62, Barcellona, 1978; Joaquim Molas, notissimo critico letterario, ha dominato la cultura catalana òel dopoguerra dirigendo la più popolare collana di classici delle Edicions 62, paragonabile ai nostri Oscar Mondadori; Isabel è la moglie di Castellet. N.d.C .] e io, avvertiti da Carme Manrubia della gravità della malattia della Rodoreda, ci eravamo trovati, con altri amici suoi, in una sorta di riunione d 'emergenza per cercare di prendere le misure necessarie per assistere Mercè e chiarire la sua situazione familiare. Ma non era venuto Joan Sales - il suo amico e editore e l'unico che sapevamo mantenesse contatti con i familiari - e non risolvemmo gran che. Sales era e fu finalmente, tre giorni dopo, il nesso che urù la famiglia e la malata in una riconciliazione finale· della quale non sapremo mai molto, né noi che rispettavamo i silenzi della Rodoreda crediamo sia necessario saperne più del fatto in sé. Abbastanza dolorosa è stata l'apparizione pubblica di suo figlio al momento del funerale: una figura scialba e insignificante, con lo sguardo vuoto, inespressivo e assente, proprio della sua malattia, una schizofrenia paranoica, secondo le parole di uno dei suoi figli. Ho paura che questo sguardo, al quale a un certo punto nel cimitero mi sono trovato proprio di fronte, mi perseguiterà per qualche tempo, legato al ricordo della Rodoreda. È come l'esteriorizzazione del nulla in una persona ancora viva, l'assurdità della vita. Mentre il feretro entrava nel cimitero, io guardavo incantato Jordi Gurguì Rodoreda, che si era messo con la moglie e i figli ai piedi della fossa aperta: qualcosa deve aver capito, quando si è mossa la gente, perché, senza che quello sguardo perso significasse nulla, ha fatto mezzo passo avanti, col rischio di cadere nella fossa, finché una mano anonima l'ha trattenuto e l'ha tirato indietro: tutto è tornato indietro, come un film alla moviola. E anch'io, facendomi da parte per lasciar passare la bara, ho fatto andare indietro il ricordo al ralenti, mentre mi appoggiavo a un cipresso di fianco a Isabel, pensando a quanti pochi giorni prima avevamo visto la Mercè viva, con la mente lucida, ferita a morte, certamente, ma in apparenza non una morte tanto rapida ·come quella che, per sua fortuna, se l'è portata via da questo mondo. Eravamo entrati per alcuni minuti, il sabato precedente, nella camera numero quindici della clinica di Girona. Il corpo piccolo, minuto, era diventato minuscolo e perfino le fattezze del volto s'erano rattrappite. Ci riconobbe, sorrise e subito scherzò dicendo che si trovava tanto bene in quella camera, e v'era tanto ben curata che, se fosse dipeso da lei, non se ne sarebbe mai andata. Sapeva o intuiva ormai la gravità della sua malattia? Il medico, che avevamo visto prima, ci aveva spiegato che non le aveva ancora detto nulla, anche se le aveva fatto capire che aveva una malattia al fegato cronica e di una certa gravità. C'era qualche pericolo a causa di un'insufficienza cardiaca di cui, d'altra parte, nessuno di noi era a conoscenza. Di fatto, come avevamo verificato un po' di tempo prima, malgrado la nostra amicizia - in alcuni casi di anni, specialmente con Carme Manrubia - nessuno in fondo sapeva quasi niente di lei, della sua vita 56 privata e neppure della sua salute. Gli inglesi chiamano secretives queste persone che hanno nascosto la loro intimità dietro un muro che nessuno ha mai superato. Per essere più precisi, dirò che il Webster' s, nel definire la parola, parla non solo di "conservare" ma anche di "produrre" segreti, specialmente quelli che riguardano la propria personalità. Era stata sempre così, la Rodoreda? Come intendeva la vita in relazione agli altri? Che rapporto personale aveva avuto con suo marito prima e con Obiols, il suo compagno di tanti anni, poi? Carme Amau, che la conosceva bene attraverso la sua opera, si chiedeva, e me l'ero chiesto anch'io quando avevamo deciso di andare a trovarla, fino a che punto si potesse dire che noi eravamo suoi "amici". Lo eravamo, certamente, ma entro i limiti da lei prefissati; cioè, niente intimità, forse solo un affetto che supponeva un rapporto di complicità tattica. Pochi amici, era l'altra premessa: se le chiedevo chi vedeva quando, ogni tanto, dopo la morte di Obiols, andava a Ginevra, mi parlava di una sola persona, Julieta, una sua compagna del tempo di guerra. Secretive: all'inizio di Specchio rotto (del 1974) vi sono, a mo' di citazione, alcune parole di Steme: "/ honour you, Eliza, for keeping secret some things". La Rodoreda andava più in là di Eliza: conservava il segreto su tutto ciò che la riguardava, si era trasfom'lata essa stessa in un segreto o, forse, perfino in una produttrice di segreti. Era certamente un personaggio recondito. Ma era anche una scrittrice importante e diventava 0 impossibile considerarla soltanto come la persona con cui si prende il tè, si pranza o si cena, o a cui si fa visita, che telefona o viene a trovarti di tanto in tanto. C'era un altro versante - e lei lo sapeva bene, poiché saltava sempre fuori parlando - che erano i suoi libri. Credo che sia possibile decifrare attraverso di essi, attraverso lemetaforee i simboli, attraverso la mitizzazione della sua stessa vita, chi era e come era, quale concezione aveva del mondo e delle cose. Tutta la repressione volontaria che imponeva alla sua vita le fuggiva fuori espressa letterariamente attraverso le invenzioni con le quali liberava i suoi sentimenti, le sue esperienze, gli angoli segreti della sua esistenza. Di più, potremmo chiederci fino a che punto la repressione che manifestava davanti agli altri non era la forza poderosa che respirava nella sua opera. La scrittura, senza dubbio, era la sua liberazione - conscia o inconscia- e questo è un altro problema che si riferisce ai misteri della creazione artistica. Fino a che punto era segreta perfino a se stessa? Se non lo era, giocava magistralmente nel mostrarlo di fronte agli altri. La sua sordità, per esempio: non c'è dubbio che Mercè era sorda: però, come succede con molti sordi, avevi sempre l'impressione che fosse una difesa in più che metteva tra sé e il resto del mondo, quando le conveniva, giocandoci più o meno - e questo "più o meno" radicava il mistero del segreto - volontariamente. Quando una risposta stupida ti sconcertava, potevi supporre qualunque cosa, ma solo una era sicura: si trattava di una "fuga", di un "guadagnar tempo" per prepararne un'altra o, semplicemente, secondo l'interlocutore, lasciargli capire che non voleva rispondere. E non parlo adesso delle indiscrezioni dei giornalisti o, perfino, di qualche amico o conoscente: una risposta stupida era un fatto abituale nel corso di una lunga chiacchierata e provocava un'incertezza nel!' animo dell'interlocutore, il dubbio se si trattasse di un malinteso causato dalla sordità o di un tentativo di sviare il discorso, di stile un po' "antico" e "molto femminile". La cosa migliore era, naturalmente, continuare la conversazione ignorando 1•~ncongruenza della rispostala quale soleva essere accompagnata da una risata un po' stridente, segno indubbio che rifuggiva dalla domanda - il che supponeva che si stesse al gioco, e questa era la condizione implicita dei limiti preziosi del!' amicizia, cioè della complicità e dei sottintesi, senza i quali questa non è possibile. Sì, Carme, alla fin fine penso che eravamo amici della Rodoreda. Non solo perché là rispettavamo e l'amavamo-e ciascuno di noi sapeva
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==