Linea d'ombra - anno VIII - n. 49 - maggio 1990

CONFRONTI lo sguardo e la città: "l'orologio" di Carlo levi Bruno Falcetto Anche L'orologio di Carlo Levi dimostra come la stagione neorealista (sebbene spesso lo si dimentichi) non sia stata il tempo del prevalere di un realismo irrigidito, piuttosto dell'intrecciarsi inquieto di parecchi realismi diversi. L'opèra di Levi.sembra progettata per sollecitare e consentire differenti modi di lettura. È un libro con tante porte insomma, non facile da riporre pacificamente in un cassetto di genere. Come nella migliore letteratura documentaria del periodo (Se questo è un uomo, 16 ottobre 1943, li mondo è una prigione o lo stesso Cristo) la scrittura vivacizzata dalla tensione realtà-rielaborazione espressiva, tra la letteratura e ciò che ne sta fuori, è felicemente ibrida, densa di cose e lontana da ogni piatto resocontismo. Nell'Orologio prende forma un originale realismo "plurale" che fa del libro un discorso variamente sfaccettato e insieme compatto, plurimodulato ma intimamente coerente. Sono in primo luogo la voce e lo sguardo del narratore a far sì che si raggiunga questo doppio obiettivo divaricato. · Uno sguardo molteplice Carlo Levi-personaggfo parla poco nelle pagine dell'Orologio, ma a questa reticenza corrisponde la prevalenza diffusa della voce del narratore che infonde alla vicenda un timbro costantemente riconoscibile. Il suo discorso dà così armonia e organizzazione alla materia del racconto: l'indiretto tende a riassorbire in sé le voci dei personaggi ma in verità senza mai cancellarle, anzi, la Carlo levi a Mal era nel 1974 Ida "Quaderni di Basilicata" 2, 1975). parola di chi narra di frequente si anima aprendosi alle voci degli altri: il discorso diretto (si pensi all'italiano d'imitazione, minimo-borghese, della cameriera Jolanda: "C'è venuta della gente a cercarla, oggi. (...) I nomi me li hanno detti, ma non li ricordo: dei nomi strani. Erano due tipi malvestiti, con un aspetto straordinariamente sadista", p. 129) e un indiretto libero di grande duttilità (capace di rendere con vivacità sia il discorrere colto dell'amico Martino, sia·l'oralità popolare del sottomondo della Garbatella, di Rosa la Giudìa o della Viterbese) danno alla caratterizzazione della folla di personaggi che popolano il romanzo una forte concretezza verbale. "Tendevo l'orecchio ad ascoltare e scrutavo nel buio" (p. 3): così si presenta il protagonista-narratore all'inizio del libro e nella stessa attitudine lo ritroviamo al termine del racconto. Non certo a caso, perché il disporsi alla perce,- zione nell'Orologio è un gesto centrale, che si ripete di continuo. Una delle doti maggiori della scrittura di Levi è infatti l'intensità dello sguardo. L'io narrante è innanzi tutto un testimone attivo: percepire in lui non è mai un semplice e passivo inventario dell'esistente, al contrario è un atto costruttivo e creativo, un processo complesso e dinamico. · · Dunque se la descrizione è il modo iniziale e, direi, costitutivo della sua scrittura, il descrivere concretizzandosi si trasforma sempre in qualcosa d'altro: la visione di Levi diventa di volta in volta (e mai approssimativamente) analisi sociologica e propriamente politica, trasfigurazione pittorica·, interpretazione psicologica, riflessione, memoria. E i generi diver~i della sua visione si intrecciano e si alternano, creando un'architettura narrativa densa e complessa. Lo stile di questa visione, poi, la maniera nefla quale lo sguardo del narratore costruisce le immagine concrete, varia spostandosi sul1' asse che unisce i poli opposti e complementari della nitidezza e linearità, da un lato, della tensione e deformazione, dall'altro. Il suo sguardo sa aderire agli oggetti, alle persone, agli eventi precisandone con esattezza i contorni e le dinamiche; ma è altrettanto capace di attraversare quelle realtà e trasformarle .. C'è un Levi che sa trovare le giuste dimensioni agli spazi come alle persone, che costruisce immagini ferme e serene; ma c'è anche un Levi che non rispetta le proporzioni ma le altera, attratto dai contrasti di luce, dagli spazi in tensione (stretti e irregolari o fortemente dilatati), dai volti deformati e dai corpi scomposti. È il Levi che nel ritrarre le cose non le lascia fotograficamente irrigidite: prova a portarne sulla carta i colori e gli odori, a rendere tutta la fisicità della reale esperienza percettiva, e si sforza di dinamizzarle grazie ·a un continuo lavoro metaforico, perché la realtà non è solo un oggetto da conoscere razionalmente ("tutte le cose appaiono e si mostrano, senza pudori (...) è la nostra parte delle cose: ma sentiamo che ce ne sono altre infinite che non si dicono, che stanno nascoste", p. 141), è anche esperienza emozionale, spettacolo da godere attraverso i sensi. 35

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==